Open Source: significato e storia

by antonellocamilotto.com


Quando si definisce un software "libero", si intende che rispetta le libertà essenziali degli utenti: la libertà di eseguire il programma, di studiare il programma e di ridistribuire delle copie con o senza modifiche.


Originariamente, il termine open source si riferiva al software open source (OSS, Open Source Software).


Il software open source è un codice progettato per essere accessibile pubblicamente. Chiunque può vederlo, modificarlo e distribuirlo secondo le proprie necessità.


Viene sviluppato tramite un approccio decentralizzato e collaborativo, che si basa sulla "peer review", ovvero le revisioni condotte dai colleghi e professionisti IT, e sul lavoro della community. Poiché sviluppato dalle community e non da una singola azienda o individuo, il software open source risulta essere una soluzione più economica, flessibile e longeva rispetto ai software proprietari.


Parlare di Linux, Android, Apache, sono solo alcuni dei nomi che usiamo nel quotidiano, divenuti di gergo comune, ma che dietro alle loro community di sviluppatori che li hanno realizzati, c’è un'intensa e convulsa storia che è interessante conoscere, soprattutto se si lavora nel comparto IT dove il concetto di open source sta rivoluzionando il mercato del software.


La storia dell’open source, poggia le sue basi molto lontano, quando agli albori dell’informatica, programmatori e sviluppatori condividevano il software per imparare gli uni dagli altri e per far evolvere il campo dell’informatica.


Si è parlato molto del Tech Model Railroad Club dell’MIT, della comunità hacker, ma anche dei dipartimenti di intelligenza artificiale del MIT e della Stanford University. Gli accademici, da sempre hanno collaborato per un fine comune ovvero accrescere le proprie competenze e quindi le competenze di tutti, per migliorare l’intero sistema, pensando che il contributo di ogni singolo possa portare ad un enorme vantaggio al risultato finale per tutta la comunità.


Infatti, dagli anni ’50 fino all’inizio degli anni ’70, era normale per gli utenti di computer disporre di software libero, quindi aperto, condiviso tra le persone che usavano i computer i quali in quel periodo storico erano prodotti di nicchia, appannaggio delle università e delle grandi organizzazioni.


I costi del software aumentano


All’epoca il business era la vendita dell’hardware e quindi i produttori di computer apprezzavano il fatto che le persone creavano e distribuivano il software che a sua volta rendeva il loro hardware utile ad un determinato scopo.


Ma all’inizio degli anni ’70, la complessità del software e i costi ad esso collegati aumentarono drasticamente, e l’industria del software in forte crescita era in competizione con i prodotti software in bundle realizzati dai fornitori di hardware, che risultavano gratuiti in quanto il loro costo era incluso nel costo dell’hardware.


Nel 1969, il governo degli Stati Uniti d’America disse che il software in bundle risultava anti concorrenziale, e da lì in avanti tutto cambiò e il software a pagamento iniziò la sua escalation fino ad arrivare all’estensione al software della legge sul copyright nel 1980.


Le Free Software Foundation


Richard Stallman, membro della comunità hacker e del laboratorio di intelligenza artificiale del MIT, nonché autore di molti software, nel 1983 intravedendo profeticamente che l’informatica sarebbe divenuta in un prossimo futuro un controllo delle persone, pensò e formulò il concetto di diritti e libertà digitali degli utenti e così decise di avviare un progetto di scrittura di un sistema operativo NON proprietario dal nome GNU (acronimo ricorsivo di "GNU's Not Unix", un sistema operativo Unix-like, ideato nel 1984 da Richard Stallman e promosso dalla Free Software Foundation), in quanto non voleva accettare accordi di NON divulgazione avrebbero comportato la mancata condivisione del codice sorgente, legge non scritta, ma alla base della cultura hacker, nata per altro al MIT.


Quindi un anno dopo, ad ottobre del 1984, prese vita la “Free software Foundation” e la logica del copyleft, ovvero l’esatto opposto del copyright, e quindi l’incentivazione alla divulgazione e la condivisione del codice sorgente tramite la famosa GPL (GNU Public License) una licenza che fornisse garanzie a tutela degli utenti, scritta secondo leggi internazionali.


Il concetto era semplice e nello stesso tempo rivoluzionario. Dove va il codice sorgente Free, va anche la libertà di copiarlo, modificarlo, condividerlo senza poterlo mai chiudere in software proprietario.


Tenete sempre in considerazione questo importante tassello nella storia dell’informatica, lo ritroveremo ogni volta che si parlerà della logica della disclosure pubblica, delle attività di bug hunting e quindi nella divulgazione e nella trasparenza sulle vulnerabilità rilevate nei prodotti software.


Il kernel di GNU e il progetto Linux


Intanto uno studente, Linus Torvalds, mentre frequentava l’università di Helsinki, stanco dei limiti della licenza del sistema operativo MINIX, che ne limitava il suo utilizzo solo in ambito didattico, iniziò a scrivere un proprio kernel (nucleo o cuore di un sistema operativo) con l’aiuto di altri hacker disseminati in giro per il pianeta.


All’inizio era solo un emulatore di terminale che poi piano piano, utilizzando software liberi del progetto GNU, come il compilatore GCC, le librerie, la bash, studiando le specifiche POSIX (termine tra l’altro coniato da Richard Stallman per definire gli standard per un sistema operativo) riuscì a produrre la prima versione del kernel Linux 0.0.1, senza interfaccia grafica, che fu pubblicata su Internet il 17 settembre 1991 e la seconda nell’ottobre dello stesso anno.


Nel 1991, avvenne una vera e propria “scossa tellurica” nel mondo dell’informatica, inizialmente piccola, ma che poco a poco si rivelò vincente verso i big della Silicon Valley, in quanto dalla combinazione del kernel Linux e del progetto GNU, venne rilasciato il sistema operativo GNU/Linux distribuito sotto licenza GPL.


La cattedrale e il bazaar


Eric Steven Raymond, evangelista della Free Software Foundation, nel 1997 pubblico il libro “La cattedrale e il bazaar”, che illustrava le differenze tra free software e software commerciale.


Mentre per la Cattedrale ogni pezzo, prima di essere costruito deve essere validato da una commissione con evidenti rallentamenti ed inefficienze, al contrario il Baazar, è l’emporio della mentalità hacker e quindi delle nuove idee, dove ogni programmatore poteva contribuire a suo modo, utilizzando il software liberamente e gratuitamente.


Netscape Communicator diventa free software


Tutto iniziava ad evolversi rapidamente, infatti nel 1998, grazie a questo libro la Netscape Communications Corporation rilasciò la popolare suite Internet Mozilla (allora Netscape Communicator) come free software lasciando tutti a bocca aperta. Richard Stallman pensò e codificò nella GPL.


Un nuovo nome


Ma il termine “free software” per la sua intrinseca ambiguità (in inglese free vuol dire sia libero che gratuito), venne visto come scoraggiante dal punto di vista commerciale, oltre che un generatore di confusione, ecco che all’interno del movimento free software, venne proposto un nuovo termine, ovvero “open source”, ideato dalla meteorologa Christine Peterson nel 1998, assieme a Bruce Perens, Eric S. Raymond, Ockman che parlarono di Open Source per la prima volta già nel 1997.


Venne quindi effettuata una ridefinizione ideologica del software libero, evidenziandone anche i vantaggi pratici per le aziende che piacque molto e venne adottato da giganti del calibro di Netscape, IBM, Sun Microsystems e HP.


L’etichetta “open source” venne ufficialmente creata durante una sessione strategica tenutasi il 3 febbraio 1998 a Palo Alto, in California, subito dopo l’annuncio del rilascio del codice sorgente di Netscape. Oggi esiste la Open Source Initiative, partita proprio da quella conferenza nel 1998.


Differenze tra Free Software, Open Source e Software Chiuso


Quindi, sebbene Open source e free software siano modelli simili, c’è una sostanziale differenza. Definire genericamente un software come Open Source, significa che puoi guardare il suo codice sorgente, ma non necessariamente vengono garantite la libertà digitale della Free Software Foudation, perché esistono licenze come ad esempio la BSD che ti permette di prendere tale codice e chiuderlo in un software proprietario.


Per Free Software invece si intende software libero, quindi filosoficamente più puro, utilizzabile senza limitazioni nella libertà, ma esso non potrà mai diventare proprietario pena cause legali, penali ed economiche.


Il software chiuso o software proprietario o "a sorgente chiuso". Quest'ultimo, essendo altamente protetto, è accessibile solo dai proprietari del codice sorgente, che dispongono dei diritti legali esclusivi. Il codice sorgente chiuso, a livello legale, non è modificabile o riproducibile e l'utente paga per utilizzare il software "così com'è", senza poterlo alterare per nuovi utilizzi o condividerlo con le community.


Da li in poi la storia del movimento open source con le sue numerose licenze Apache, BSD, Mozilla, GPL, la conosciamo bene, tra convention, hacking, distribuzioni linux e software di ogni tipo, quello che ci ha insegnato tutto questo è che molte delle cose migliori che ha fatto l’uomo, sono state fatte attraverso la collaborazione e la trasparenza e la presenza di una solida comunità a contorno e che la logica del modello chiuso, in generale, prima o poi arriverà ad un declino.


Un dirigente di Microsoft disse pubblicamente nel 2001: "l’open source è un distruttore della proprietà intellettuale". Probabilmente in quel periodo poteva sembrare corretto pensarla in questo modo, ma oggi, risulta ancora applicabile?


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Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
Collegamenti sempre più invisibili, contenuti sempre più chiusi: un futuro della rete che mette in discussione l’idea stessa di navigazione. Nel silenzio, mentre scorriamo un feed o leggiamo un articolo incorporato in una piattaforma, un cambiamento profondo sta avvenendo sotto i nostri occhi: i link, cuore pulsante dell’architettura originaria del web, stanno scomparendo. Non del tutto, certo. Ma il loro ruolo si sta riducendo a tal punto da farci domandare: come sarebbe Internet se i link non esistessero più? La domanda può sembrare provocatoria, ma descrive una tendenza concreta. Oggi, gran parte del consumo di contenuti digitali avviene all’interno di ambienti chiusi: social network, app mobili, piattaforme editoriali che limitano o scoraggiano l’uso dei collegamenti ipertestuali. Gli algoritmi favoriscono contenuti auto-contenuti, mentre i link esterni vengono penalizzati, nascosti, ridotti a dettagli invisibili o addirittura rimossi. Eppure, l’idea stessa di “navigazione” – non a caso il verbo simbolo di Internet – si fonda proprio sulla possibilità di passare da un contenuto all’altro. Il link è, o almeno era, la bussola del web: ci guida tra informazioni, ci permette di verificare, approfondire, esplorare. Toglierlo significa cambiare radicalmente il rapporto tra utente e contenuto. Il tramonto del web aperto Il web è nato come spazio libero e interconnesso. I link, fin dalle prime versioni dell’HTML, erano la struttura portante di questa architettura. Ogni pagina era un nodo, ogni collegamento un ponte. Ma oggi questa rete si sta restringendo. I grandi attori digitali preferiscono contenuti che “non facciano uscire l’utente”: meno link, più permanenza sulla piattaforma. Il risultato è un ecosistema più controllato, meno trasparente. Se i link vengono oscurati o resi irrilevanti, l’utente perde la capacità di orientarsi, di risalire alle fonti, di ricostruire un contesto. I contenuti si isolano, si consumano come bolle di testo in una sequenza algoritmica, e la navigazione cede il passo allo scroll. Un’informazione meno verificabile Questo scenario ha implicazioni non solo tecniche, ma anche culturali e democratiche. Senza link, l’informazione perde profondità. È più difficile distinguere il fatto dall’opinione, la fonte attendibile da quella manipolata. La verifica, che richiede un percorso tra documenti e riferimenti, diventa impraticabile. In un web disancorato, la conoscenza si appiattisce e diventa più facile da manipolare. La sfida: riattivare la connessione Non tutto, però, è già deciso. Esistono ancora spazi – dai blog ai progetti open source, dai portali enciclopedici alle riviste online – dove i link mantengono il loro valore. È lì che si gioca la partita per un web più aperto, accessibile e responsabile. Ma serve una presa di coscienza collettiva. Gli editori digitali devono tornare a credere nella struttura reticolare del sapere. I progettisti di interfacce devono valorizzare i collegamenti, non nasconderli. Gli utenti stessi possono fare la differenza, scegliendo piattaforme e formati che rispettano la logica della connessione e della trasparenza. Internet è nato come rete, e una rete senza nodi è solo un ammasso di fili scollegati. Immaginare un web senza link significa accettare un mondo più chiuso, più controllato, e meno libero. La buona notizia è che il link – piccolo, blu, sottolineato – è ancora con noi. Ma per quanto ancora?
Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
Charles Babbage è universalmente riconosciuto come uno dei padri fondatori dell’informatica moderna. Nato a Londra il 26 dicembre 1791, Babbage fu un matematico, filosofo, inventore e ingegnere meccanico, noto soprattutto per la sua visione rivoluzionaria: la creazione di una macchina calcolatrice automatica. In un’epoca dominata dal lavoro manuale e dalla scarsa affidabilità dei calcoli umani, la sua idea fu un punto di svolta epocale. L’idea della macchina differenziale Babbage sviluppò per la prima volta l’idea della Macchina Differenziale nei primi anni del XIX secolo. Questa macchina era progettata per automatizzare il calcolo di funzioni matematiche complesse, in particolare i polinomi, con l'obiettivo di generare tabelle matematiche prive di errori. A quel tempo, gli errori di stampa e di calcolo nelle tavole logaritmiche e trigonometriche causavano gravi problemi in ambito ingegneristico e nautico. Nel 1822, presentò un modello funzionante della macchina alla Royal Astronomical Society, guadagnandosi il supporto del governo britannico. Tuttavia, difficoltà tecniche e finanziarie portarono all’abbandono del progetto. La Macchina Analitica: un’idea oltre il suo tempo Nonostante gli insuccessi iniziali, Babbage non abbandonò la sua visione. Negli anni successivi progettò un dispositivo ancora più ambizioso: la Macchina Analitica. Questo nuovo progetto andava ben oltre la semplice automazione del calcolo. Era, in sostanza, un vero e proprio prototipo di computer: programmabile, dotato di memoria (il “magazzino”) e di un’unità di calcolo (il “mulino”), capace di eseguire istruzioni condizionali e cicli. La Macchina Analitica non fu mai costruita durante la vita di Babbage, ma il concetto alla base della sua progettazione era straordinariamente simile a quello dei moderni computer. Un altro aspetto fondamentale dell’eredità di Babbage è la collaborazione con Ada Lovelace, figlia del poeta Lord Byron. Ada comprese appieno il potenziale della Macchina Analitica e scrisse una serie di note esplicative, includendo quello che è considerato il primo algoritmo destinato ad essere eseguito da una macchina. Per questo motivo, è spesso considerata la prima programmatrice della storia. L’eredità di Charles Babbage Sebbene nessuna delle sue macchine sia stata completata durante la sua vita, Charles Babbage ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’informatica. I suoi progetti teorici furono riscoperti e studiati nel XX secolo, dimostrando che, se avesse avuto accesso alla tecnologia adeguata, avrebbe potuto costruire un computer funzionante più di un secolo prima della nascita dell’elettronica digitale. Nel 1991, per celebrare il bicentenario della sua nascita, il Science Museum di Londra costruì una versione funzionante della Macchina Differenziale, basandosi sui disegni originali. Il risultato confermò la validità delle idee di Babbage: la macchina funzionava perfettamente. Charles Babbage è un esempio straordinario di come la visione scientifica possa superare i limiti del proprio tempo. Le sue invenzioni non solo anticiparono i concetti fondamentali del computer moderno, ma aprirono la strada a un intero nuovo campo di conoscenza. La sua figura è un monito a non sottovalutare la forza dell’immaginazione e della perseveranza nella ricerca scientifica.
Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
I social media sono diventati uno degli ambienti più influenti nella formazione dell’identità personale, delle opinioni e delle relazioni. Tuttavia, dietro la loro apparente funzione di condivisione e connessione, si nasconde una dinamica psicologica complessa e potente: la dissonanza cognitiva. Cos’è la dissonanza cognitiva? La dissonanza cognitiva è un concetto introdotto dallo psicologo Leon Festinger nel 1957 e si riferisce al disagio psicologico che proviamo quando le nostre convinzioni, atteggiamenti o comportamenti sono in conflitto tra loro. Per esempio, se una persona si considera ambientalista ma prende spesso l’aereo, potrebbe provare una tensione interna tra ciò che pensa e ciò che fa. Per ridurre questo disagio, cercherà di modificare le proprie credenze, giustificare il comportamento o cambiarlo. Social media: il terreno perfetto per la dissonanza I social media amplificano le situazioni in cui può emergere la dissonanza cognitiva. Questo accade per diversi motivi: Esposizione continua a opinioni divergenti: sui social siamo costantemente bombardati da opinioni, valori e stili di vita diversi dai nostri. Se leggiamo un post che contrasta con le nostre convinzioni più radicate, possiamo provare una sensazione di fastidio o disagio. Costruzione dell’identità digitale: la necessità di apparire coerenti e approvati dagli altri spinge molte persone a pubblicare contenuti che riflettono un'immagine ideale di sé, spesso lontana dalla realtà. Questa discrepanza può generare un conflitto interiore tra il “sé reale” e il “sé digitale”. Ricerca di approvazione (like, commenti, condivisioni): il bisogno di conferma sociale può portare a comportamenti incoerenti. Ad esempio, si può sostenere pubblicamente una causa per ricevere approvazione, pur non condividendola pienamente nella vita privata. Confronto sociale costante: vedere persone simili a noi avere successo, apparire felici o coerenti con i propri valori può indurre una crisi interna, soprattutto se sentiamo di non essere all’altezza o di vivere una realtà contraddittoria. Le strategie per ridurre la dissonanza online Quando ci troviamo in dissonanza a causa dei social, tendiamo a mettere in atto alcune strategie inconsapevoli per ritrovare un senso di coerenza: Razionalizzazione: "Lo faccio solo per divertimento, non significa che ci creda davvero." Negazione o minimizzazione: "Sui social tutti fingono, non è importante." Cambiamento di opinione: adattare le proprie idee a quelle più condivise nel proprio gruppo di riferimento (spesso chiamato echo chamber). Attacco alla fonte del disagio: criticare chi esprime opinioni diverse o bloccare chi mette in discussione le nostre convinzioni. Implicazioni psicologiche e sociali La continua esposizione alla dissonanza cognitiva sui social può avere effetti significativi: Affaticamento mentale: mantenere due idee opposte nella mente richiede energia e può portare a stress, ansia o burnout. Polarizzazione: per ridurre la dissonanza, ci si rifugia in bolle di opinioni simili, limitando il confronto e aumentando l’intolleranza verso chi la pensa diversamente. Crescita personale: se gestita in modo consapevole, la dissonanza può essere un motore di evoluzione interiore, spingendoci a riflettere, mettere in discussione le nostre certezze e crescere. I social media non sono solo strumenti di comunicazione, ma spazi in cui si gioca costantemente una battaglia tra autenticità e immagine, tra coerenza e contraddizione. Comprendere il meccanismo della dissonanza cognitiva ci permette di usare i social in modo più consapevole, critico e meno reattivo. La sfida non è eliminare la dissonanza, ma imparare ad ascoltarla e integrarla nel nostro percorso di crescita personale.
Autore: by Antonello Camilotto 26 luglio 2025
Quando il Blu-ray fece il suo debutto nel 2006, fu salutato come il futuro dell’home entertainment. Una tecnologia capace di offrire una qualità video e audio impensabile con il DVD, supportata da giganti dell’elettronica e dello spettacolo. Eppure, meno di due decenni dopo, il suo nome è ormai relegato a scaffali polverosi e nostalgici collezionisti. Una parabola netta e sorprendente, fatta di trionfi iniziali e di un declino tanto rapido quanto inevitabile. L’ascesa: la vittoria nella guerra dei formati All’inizio degli anni 2000, con la diffusione dell’alta definizione, nacque l’esigenza di un nuovo supporto fisico capace di contenere grandi quantità di dati. Due formati si contesero il trono: HD DVD, sostenuto da Toshiba e Microsoft, e Blu-ray, promosso da Sony, Panasonic e altri colossi. La cosiddetta "guerra dei formati" fu combattuta su più fronti: qualità tecnica, costi di produzione, supporto da parte delle major cinematografiche. Il colpo decisivo arrivò nel 2008, quando Warner Bros. annunciò il proprio abbandono dell’HD DVD in favore del Blu-ray. Quella scelta sancì la fine del rivale. Toshiba si ritirò poco dopo, e il Blu-ray sembrava destinato a un lungo regno. Il picco: la promessa mantenuta (per poco) I primi anni post-vittoria furono positivi. Il Blu-ray offriva una qualità d'immagine e suono superiore, contenuti extra più ricchi e una protezione contro la pirateria più avanzata. L’arrivo della PlayStation 3, che includeva un lettore Blu-ray, contribuì a una maggiore diffusione del formato. Ma dietro il successo si nascondevano già le ombre: il supporto fisico stava perdendo terreno. Le connessioni internet diventavano più veloci, i servizi di streaming iniziavano a farsi strada, e la comodità dell’on demand cominciava a far vacillare la centralità del disco. Il declino: vittima della sua epoca Nonostante l’arrivo di varianti come il Blu-ray 3D e l’Ultra HD Blu-ray (4K), il formato non riuscì a imporsi come standard di massa. Il prezzo elevato dei lettori, la concorrenza interna tra versioni diverse e la rapidissima evoluzione dello streaming contribuirono al suo lento abbandono. Servizi come Netflix, Amazon Prime Video e Disney+ hanno reso l’accesso ai contenuti semplicissimo e immediato, anche in alta definizione o 4K. Inoltre, molte persone hanno semplicemente smesso di acquistare film in formato fisico, preferendo il digitale. Un’eredità ambigua Oggi, il Blu-ray sopravvive in nicchie: cinefili appassionati, collezionisti, utenti che vogliono la massima qualità senza compressione. Ma il grande pubblico lo ha abbandonato. Eppure, il Blu-ray ha lasciato il segno: ha segnato una tappa importante nell’evoluzione dell’home video e rappresenta forse l’ultimo grande standard fisico prima del passaggio definitivo al digitale. La storia del Blu-ray è una lezione sulla velocità del cambiamento tecnologico. Una vittoria epocale contro un rivale potente, seguita da un fallimento commerciale segnato dai tempi che cambiano. Nonostante tutto, il Blu-ray rimane un simbolo: di innovazione, di ambizione e, in un certo senso, di nostalgia per un’epoca in cui possedere un film voleva dire toccarlo con mano. ๏ปฟ
Autore: by antonellocamilotto.com 26 luglio 2025
Telegram è una delle app di messaggistica più popolari al mondo, apprezzata per le sue funzioni avanzate, la velocità e, soprattutto, l’attenzione alla privacy. Tuttavia, una domanda sorge spontanea per molti utenti: perché non tutte le chat su Telegram sono "segrete"? La risposta si trova nella struttura stessa dell'app e nel modo in cui bilancia sicurezza, funzionalità e usabilità. Chat cloud e chat segrete: la differenza fondamentale Telegram offre due tipi principali di chat: Chat cloud (standard) Chat segrete Le chat cloud sono quelle predefinite: ogni volta che avvii una nuova conversazione normale, stai usando una chat cloud. Queste chat: Sono archiviate sui server di Telegram in forma crittografata. Permettono l’accesso da più dispositivi contemporaneamente. Supportano la sincronizzazione automatica e il backup. Offrono funzioni come messaggi fissati, bot, invio di file pesanti, modifiche e cancellazioni retroattive. Le chat segrete, invece: Usano la crittografia end-to-end: solo il mittente e il destinatario possono leggere i messaggi. Non sono salvate sul cloud di Telegram. Non possono essere inoltrate. Non sono accessibili da più dispositivi. Offrono l’autodistruzione dei messaggi e notifiche di screenshot. Perché Telegram non rende tutte le chat “segrete” di default? Sebbene la crittografia end-to-end sia più sicura, Telegram ha scelto di non applicarla a tutte le chat per diversi motivi: Multi-dispositivo e sincronizzazione Le chat cloud permettono l’uso dell’app da computer, tablet e smartphone contemporaneamente. Le chat segrete, essendo legate a uno specifico dispositivo, non possono essere sincronizzate su più device. 2. Prestazioni e usabilità La crittografia end-to-end su vasta scala rende più difficile implementare funzionalità complesse e rapide. Telegram punta molto sulla praticità d’uso, anche a scapito della crittografia “totale”. 3. Scelta consapevole Telegram lascia decidere all’utente se attivare o meno la modalità segreta, dando pieno controllo su come proteggere le proprie conversazioni. Telegram è sicuro anche senza chat segrete? Sì, ma con alcune precisazioni: Le chat cloud sono crittografate lato server, quindi Telegram conserva i messaggi in forma cifrata. Tuttavia, la chiave di cifratura è nelle mani dell’azienda, che potrebbe teoricamente accedervi (anche se dichiara di non farlo). Le chat segrete, invece, sono completamente private: neanche Telegram può leggerle. Quando usare le chat segrete? Le chat segrete sono ideali quando: Si condividono informazioni sensibili. Si desidera una comunicazione strettamente privata. Non si vogliono lasciare tracce sui server o avere sincronizzazione. Telegram offre un compromesso tra funzionalità avanzate e sicurezza, lasciando agli utenti la libertà di scegliere quanto proteggere le proprie conversazioni. Non tutte le chat sono segrete perché, semplicemente, non sempre è necessario. Ma quando lo è, Telegram mette a disposizione strumenti potenti per garantire la massima riservatezza. Se cerchi un equilibrio tra comodità e privacy, Telegram te lo offre. Ma se desideri massima sicurezza, ricordati: attiva una chat segreta.
Autore: by Antonello Camilotto 26 luglio 2025
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale in ogni ambito della nostra vita – dal lavoro alla casa, dai trasporti alla sanità – l’infrastruttura che rende possibile questa rivoluzione deve evolvere di pari passo. In questo contesto si inserisce il nuovo standard Wi-Fi 8, destinato a diventare la colonna portante della connettività nell’era AI. Un salto generazionale Approvato in fase preliminare dalla IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers) e in fase di definizione finale, il Wi-Fi 8 promette una svolta rispetto al suo predecessore, il Wi-Fi 7. Mentre quest’ultimo ha introdotto la modulazione 4K-QAM e una latenza ridottissima per applicazioni in tempo reale, Wi-Fi 8 va oltre: nasce per supportare l’interconnessione massiva di dispositivi intelligenti, con una particolare attenzione a edge computing, automazione, e gestione dinamica del traffico dati. Intelligenza distribuita e reti dinamiche Ciò che distingue Wi-Fi 8 non è solo la velocità – che potrebbe superare teoricamente i 50 Gbps – ma la capacità di adattarsi in tempo reale alle esigenze della rete. Grazie all’introduzione di algoritmi di gestione AI-native e una maggiore integrazione con il 6G, Wi-Fi 8 sarà in grado di allocare risorse in modo predittivo, anticipando congestioni e ottimizzando la latenza. Questo è cruciale in scenari come fabbriche autonome, ospedali con robot chirurgici connessi o smart city in cui ogni lampione, semaforo o veicolo comunica costantemente con la rete. In ambienti domestici, invece, Wi-Fi 8 promette streaming 8K senza interruzioni, gaming cloud con latenza impercettibile e una gestione intelligente dei dispositivi IoT. Una rete che apprende Uno degli elementi più innovativi dello standard è la capacità delle reti Wi-Fi 8 di apprendere dal comportamento degli utenti e dei dispositivi. Saranno in grado, ad esempio, di riconoscere pattern di utilizzo e modificare automaticamente la priorità del traffico: se un visore AR inizia una sessione di realtà aumentata, la rete potrà assegnargli la banda necessaria istantaneamente, senza compromettere gli altri servizi. Sicurezza e privacy: sfide cruciali Tuttavia, con la crescita dell’intelligenza e dell’automazione, aumentano anche le vulnerabilità. Il Wi-Fi 8 prevede un rafforzamento delle misure di sicurezza, con autenticazione multipla avanzata, cifratura post-quantistica e sistemi di rilevamento automatico delle minacce, anche questi basati su AI. Quando arriverà? Secondo gli esperti del settore, i primi dispositivi compatibili con Wi-Fi 8 potrebbero vedere la luce tra il 2026 e il 2027, con una diffusione di massa prevista entro il decennio. Aziende come Qualcomm, Intel, e Huawei stanno già lavorando su chip di nuova generazione che supporteranno il nuovo standard. Wi-Fi 8 non è solo una nuova sigla tecnica: rappresenta un cambio di paradigma. In un mondo dove l’intelligenza artificiale è ovunque, anche la rete deve diventare intelligente. Con Wi-Fi 8, la connettività entra in una nuova era: flessibile, predittiva, e – soprattutto – pensata per dialogare con le macchine che stanno cambiando la nostra società.
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