Open Source: significato e storia

by antonellocamilotto.com


Quando si definisce un software "libero", si intende che rispetta le libertà essenziali degli utenti: la libertà di eseguire il programma, di studiare il programma e di ridistribuire delle copie con o senza modifiche.


Originariamente, il termine open source si riferiva al software open source (OSS, Open Source Software).


Il software open source è un codice progettato per essere accessibile pubblicamente. Chiunque può vederlo, modificarlo e distribuirlo secondo le proprie necessità.


Viene sviluppato tramite un approccio decentralizzato e collaborativo, che si basa sulla "peer review", ovvero le revisioni condotte dai colleghi e professionisti IT, e sul lavoro della community. Poiché sviluppato dalle community e non da una singola azienda o individuo, il software open source risulta essere una soluzione più economica, flessibile e longeva rispetto ai software proprietari.


Parlare di Linux, Android, Apache, sono solo alcuni dei nomi che usiamo nel quotidiano, divenuti di gergo comune, ma che dietro alle loro community di sviluppatori che li hanno realizzati, c’è un'intensa e convulsa storia che è interessante conoscere, soprattutto se si lavora nel comparto IT dove il concetto di open source sta rivoluzionando il mercato del software.


La storia dell’open source, poggia le sue basi molto lontano, quando agli albori dell’informatica, programmatori e sviluppatori condividevano il software per imparare gli uni dagli altri e per far evolvere il campo dell’informatica.


Si è parlato molto del Tech Model Railroad Club dell’MIT, della comunità hacker, ma anche dei dipartimenti di intelligenza artificiale del MIT e della Stanford University. Gli accademici, da sempre hanno collaborato per un fine comune ovvero accrescere le proprie competenze e quindi le competenze di tutti, per migliorare l’intero sistema, pensando che il contributo di ogni singolo possa portare ad un enorme vantaggio al risultato finale per tutta la comunità.


Infatti, dagli anni ’50 fino all’inizio degli anni ’70, era normale per gli utenti di computer disporre di software libero, quindi aperto, condiviso tra le persone che usavano i computer i quali in quel periodo storico erano prodotti di nicchia, appannaggio delle università e delle grandi organizzazioni.


I costi del software aumentano


All’epoca il business era la vendita dell’hardware e quindi i produttori di computer apprezzavano il fatto che le persone creavano e distribuivano il software che a sua volta rendeva il loro hardware utile ad un determinato scopo.


Ma all’inizio degli anni ’70, la complessità del software e i costi ad esso collegati aumentarono drasticamente, e l’industria del software in forte crescita era in competizione con i prodotti software in bundle realizzati dai fornitori di hardware, che risultavano gratuiti in quanto il loro costo era incluso nel costo dell’hardware.


Nel 1969, il governo degli Stati Uniti d’America disse che il software in bundle risultava anti concorrenziale, e da lì in avanti tutto cambiò e il software a pagamento iniziò la sua escalation fino ad arrivare all’estensione al software della legge sul copyright nel 1980.


Le Free Software Foundation


Richard Stallman, membro della comunità hacker e del laboratorio di intelligenza artificiale del MIT, nonché autore di molti software, nel 1983 intravedendo profeticamente che l’informatica sarebbe divenuta in un prossimo futuro un controllo delle persone, pensò e formulò il concetto di diritti e libertà digitali degli utenti e così decise di avviare un progetto di scrittura di un sistema operativo NON proprietario dal nome GNU (acronimo ricorsivo di "GNU's Not Unix", un sistema operativo Unix-like, ideato nel 1984 da Richard Stallman e promosso dalla Free Software Foundation), in quanto non voleva accettare accordi di NON divulgazione avrebbero comportato la mancata condivisione del codice sorgente, legge non scritta, ma alla base della cultura hacker, nata per altro al MIT.


Quindi un anno dopo, ad ottobre del 1984, prese vita la “Free software Foundation” e la logica del copyleft, ovvero l’esatto opposto del copyright, e quindi l’incentivazione alla divulgazione e la condivisione del codice sorgente tramite la famosa GPL (GNU Public License) una licenza che fornisse garanzie a tutela degli utenti, scritta secondo leggi internazionali.


Il concetto era semplice e nello stesso tempo rivoluzionario. Dove va il codice sorgente Free, va anche la libertà di copiarlo, modificarlo, condividerlo senza poterlo mai chiudere in software proprietario.


Tenete sempre in considerazione questo importante tassello nella storia dell’informatica, lo ritroveremo ogni volta che si parlerà della logica della disclosure pubblica, delle attività di bug hunting e quindi nella divulgazione e nella trasparenza sulle vulnerabilità rilevate nei prodotti software.


Il kernel di GNU e il progetto Linux


Intanto uno studente, Linus Torvalds, mentre frequentava l’università di Helsinki, stanco dei limiti della licenza del sistema operativo MINIX, che ne limitava il suo utilizzo solo in ambito didattico, iniziò a scrivere un proprio kernel (nucleo o cuore di un sistema operativo) con l’aiuto di altri hacker disseminati in giro per il pianeta.


All’inizio era solo un emulatore di terminale che poi piano piano, utilizzando software liberi del progetto GNU, come il compilatore GCC, le librerie, la bash, studiando le specifiche POSIX (termine tra l’altro coniato da Richard Stallman per definire gli standard per un sistema operativo) riuscì a produrre la prima versione del kernel Linux 0.0.1, senza interfaccia grafica, che fu pubblicata su Internet il 17 settembre 1991 e la seconda nell’ottobre dello stesso anno.


Nel 1991, avvenne una vera e propria “scossa tellurica” nel mondo dell’informatica, inizialmente piccola, ma che poco a poco si rivelò vincente verso i big della Silicon Valley, in quanto dalla combinazione del kernel Linux e del progetto GNU, venne rilasciato il sistema operativo GNU/Linux distribuito sotto licenza GPL.


La cattedrale e il bazaar


Eric Steven Raymond, evangelista della Free Software Foundation, nel 1997 pubblico il libro “La cattedrale e il bazaar”, che illustrava le differenze tra free software e software commerciale.


Mentre per la Cattedrale ogni pezzo, prima di essere costruito deve essere validato da una commissione con evidenti rallentamenti ed inefficienze, al contrario il Baazar, è l’emporio della mentalità hacker e quindi delle nuove idee, dove ogni programmatore poteva contribuire a suo modo, utilizzando il software liberamente e gratuitamente.


Netscape Communicator diventa free software


Tutto iniziava ad evolversi rapidamente, infatti nel 1998, grazie a questo libro la Netscape Communications Corporation rilasciò la popolare suite Internet Mozilla (allora Netscape Communicator) come free software lasciando tutti a bocca aperta. Richard Stallman pensò e codificò nella GPL.


Un nuovo nome


Ma il termine “free software” per la sua intrinseca ambiguità (in inglese free vuol dire sia libero che gratuito), venne visto come scoraggiante dal punto di vista commerciale, oltre che un generatore di confusione, ecco che all’interno del movimento free software, venne proposto un nuovo termine, ovvero “open source”, ideato dalla meteorologa Christine Peterson nel 1998, assieme a Bruce Perens, Eric S. Raymond, Ockman che parlarono di Open Source per la prima volta già nel 1997.


Venne quindi effettuata una ridefinizione ideologica del software libero, evidenziandone anche i vantaggi pratici per le aziende che piacque molto e venne adottato da giganti del calibro di Netscape, IBM, Sun Microsystems e HP.


L’etichetta “open source” venne ufficialmente creata durante una sessione strategica tenutasi il 3 febbraio 1998 a Palo Alto, in California, subito dopo l’annuncio del rilascio del codice sorgente di Netscape. Oggi esiste la Open Source Initiative, partita proprio da quella conferenza nel 1998.


Differenze tra Free Software, Open Source e Software Chiuso


Quindi, sebbene Open source e free software siano modelli simili, c’è una sostanziale differenza. Definire genericamente un software come Open Source, significa che puoi guardare il suo codice sorgente, ma non necessariamente vengono garantite la libertà digitale della Free Software Foudation, perché esistono licenze come ad esempio la BSD che ti permette di prendere tale codice e chiuderlo in un software proprietario.


Per Free Software invece si intende software libero, quindi filosoficamente più puro, utilizzabile senza limitazioni nella libertà, ma esso non potrà mai diventare proprietario pena cause legali, penali ed economiche.


Il software chiuso o software proprietario o "a sorgente chiuso". Quest'ultimo, essendo altamente protetto, è accessibile solo dai proprietari del codice sorgente, che dispongono dei diritti legali esclusivi. Il codice sorgente chiuso, a livello legale, non è modificabile o riproducibile e l'utente paga per utilizzare il software "così com'è", senza poterlo alterare per nuovi utilizzi o condividerlo con le community.


Da li in poi la storia del movimento open source con le sue numerose licenze Apache, BSD, Mozilla, GPL, la conosciamo bene, tra convention, hacking, distribuzioni linux e software di ogni tipo, quello che ci ha insegnato tutto questo è che molte delle cose migliori che ha fatto l’uomo, sono state fatte attraverso la collaborazione e la trasparenza e la presenza di una solida comunità a contorno e che la logica del modello chiuso, in generale, prima o poi arriverà ad un declino.


Un dirigente di Microsoft disse pubblicamente nel 2001: "l’open source è un distruttore della proprietà intellettuale". Probabilmente in quel periodo poteva sembrare corretto pensarla in questo modo, ma oggi, risulta ancora applicabile?


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Autore: by Antonello Camilotto 11 settembre 2025
Il futuro del digitale non è più soltanto sulla Terra. Con il progetto Lunar Vault, il primo datacenter lunare, l’umanità compie un passo che fino a pochi anni fa apparteneva solo alla fantascienza. Un’infrastruttura tecnologica costruita direttamente sul nostro satellite naturale, capace di custodire e gestire dati in un ambiente estremo e affascinante. Perché portare i dati sulla Luna? Dietro questa impresa c’è un’idea semplice ma visionaria: liberare la Terra da parte del peso energetico e ambientale dei datacenter tradizionali. Lunar Vault sfrutta i poli lunari, dove la luce del Sole è presente quasi tutto l’anno, garantendo un flusso costante di energia solare. Inoltre, il vuoto spaziale e le basse temperature offrono condizioni naturali che possono essere utilizzate per il raffreddamento dei server. Un altro aspetto non trascurabile è la sicurezza: un datacenter sulla Luna è praticamente al riparo da disastri naturali, attacchi fisici o sabotaggi, diventando un luogo ideale per ospitare i dati più sensibili del pianeta. Le sfide di Lunar Vault La realizzazione del progetto non è stata priva di ostacoli. I tecnici hanno dovuto affrontare il problema delle radiazioni cosmiche, che minacciano i componenti elettronici, e sviluppare sistemi robotici autonomi capaci di costruire la struttura senza la presenza costante di astronauti. Anche le comunicazioni richiedono tecnologie avanzate: la trasmissione dei dati avviene tramite collegamenti laser ad altissima velocità, con un ritardo minimo di circa 1,3 secondi tra Terra e Luna. Un simbolo di progresso e potere Lunar Vault non è solo un’infrastruttura tecnologica: è anche un simbolo geopolitico. Avere il controllo di un datacenter nello spazio significa conquistare un vantaggio strategico, aprendo la strada a un’economia digitale interplanetaria. Allo stesso tempo, sarà una risorsa per la ricerca scientifica, offrendo supporto immediato alle missioni spaziali e alla gestione dei dati provenienti da esperimenti lunari e futuri viaggi verso Marte. Un nuovo orizzonte Con Lunar Vault si apre una nuova pagina della storia digitale. La Luna diventa non solo un luogo da esplorare, ma anche un nodo vitale per le reti del futuro. Oggi custodire i dati tra le stelle può sembrare un’idea visionaria, ma domani potrebbe diventare la normalità. Il cielo non è più il limite: ora i nostri file viaggiano oltre l’atmosfera, trovando rifugio in una cassaforte di dati sospesa nello spazio. Vuoi che ti proponga anche una versione più breve, da quotidiano online, con un taglio da notizia flash?
Autore: by Antonello Camilotto 11 settembre 2025
Dal 2019, la Russia sta sviluppando il progetto Runet, una rete Internet nazionale con l'obiettivo di ridurre la dipendenza dal web globale e rafforzare il controllo sulle informazioni all'interno dei confini nazionali. Questo progetto mira a incanalare il traffico web attraverso nodi controllati dallo Stato e a implementare sistemi avanzati di filtraggio e sorveglianza, simili al "Great Firewall" cinese. Nonostante gli sforzi del governo russo, la completa disconnessione dalla rete Internet globale non è ancora avvenuta. Il Paese continua a dipendere in larga misura da tecnologie e infrastrutture estere. Tuttavia, il controllo sulle attività online è aumentato significativamente: negli ultimi anni, Mosca ha bloccato o limitato l'accesso a piattaforme occidentali come Facebook e X (precedentemente Twitter) e ha intensificato le restrizioni sull'uso delle VPN, strumenti utilizzati dai cittadini per aggirare i blocchi. La legge sull'Internet sovrano, entrata in vigore il 1° novembre 2019, impone agli operatori di telecomunicazioni l'installazione di apparecchiature statali per analizzare e filtrare il traffico, consentendo al Roskomnadzor, l'ente federale russo per la supervisione delle telecomunicazioni, di gestire centralmente il traffico Internet e limitare l'accesso ai siti vietati. Nonostante questi sviluppi, la realizzazione completa di un Runet autonomo presenta sfide significative. La Russia ospita migliaia di provider Internet, rendendo complessa l'implementazione di un controllo centralizzato. Inoltre, la dipendenza da tecnologie e software stranieri complica ulteriormente l'obiettivo di una rete completamente sovrana. In sintesi, mentre la Russia ha compiuto passi significativi verso la creazione di un Internet "sovrano", il processo è ancora in corso e presenta numerose sfide tecniche e politiche. Il controllo sulle informazioni online è aumentato, ma la completa indipendenza dalla rete globale rimane un obiettivo non ancora raggiunto.
Autore: by Antonello Camilotto 11 settembre 2025
Nell'epoca dell'iperconnessione e della comunicazione istantanea, la persuasione ha subito una profonda trasformazione. Oggi si parla sempre più spesso di Persuasione 2.0, un'evoluzione della classica arte del convincere che si muove tra algoritmi, social media, intelligenza artificiale e nuovi linguaggi digitali. Ma cosa significa esattamente? E in che modo influisce sulle nostre decisioni quotidiane? Cos’è la Persuasione 2.0? La Persuasione 2.0 è l’insieme di strategie, tecnologie e dinamiche psicologiche che mirano a orientare pensieri, comportamenti e decisioni nell’ambiente digitale. A differenza della persuasione tradizionale — basata sul rapporto diretto, sull’oratoria o sul marketing classico — quella 2.0 si fonda su: Big data e profilazione: ogni nostra azione online lascia tracce. Queste informazioni vengono raccolte e analizzate per costruire messaggi personalizzati, capaci di parlare al singolo utente con una precisione mai vista prima. Automazione e IA: chatbot, sistemi di raccomandazione, intelligenze artificiali generative. Tutti strumenti in grado di veicolare contenuti persuasivi su larga scala e in tempo reale. Social proof digitale: like, commenti, recensioni e follower sono diventati metriche persuasive, simboli di approvazione sociale che influenzano le scelte degli utenti. Design comportamentale (nudge design): interfacce e user experience sono progettate per orientare l’utente verso determinate azioni, sfruttando bias cognitivi e microinterazioni. Le tecniche persuasive nell’ambiente digitale Nel contesto della Persuasione 2.0, le tecniche classiche vengono adattate e potenziate: Storytelling algoritmico: i contenuti narrativi vengono costruiti (o selezionati) in base agli interessi dell’utente. Netflix, TikTok e Spotify usano la personalizzazione narrativa per fidelizzare. FOMO (Fear of Missing Out): notifiche push, offerte a tempo limitato e “ultimi pezzi disponibili” stimolano l’urgenza e il desiderio di non restare esclusi. Retargeting pubblicitario: un annuncio che ci segue ovunque non è un caso. È una strategia mirata a rafforzare l’impatto persuasivo ripetendo il messaggio nel tempo e nei contesti più rilevanti. Influencer marketing: le figure pubbliche digitali diventano canali persuasivi potenti, grazie alla fiducia e al senso di vicinanza che instaurano con i follower. Implicazioni etiche e sociali La potenza della Persuasione 2.0 solleva interrogativi rilevanti. Quando la persuasione diventa manipolazione? Dove si colloca il confine tra coinvolgimento e condizionamento? La personalizzazione estrema può rafforzare le bolle informative, limitando l’esposizione a idee differenti. Inoltre, la capacità delle piattaforme di anticipare e influenzare i desideri degli utenti pone questioni su libertà di scelta, autonomia cognitiva e responsabilità degli attori digitali. Serve una nuova consapevolezza? La Persuasione 2.0 non è né buona né cattiva di per sé. È uno strumento potente, e come tale richiede competenza e coscienza critica da parte sia di chi la utilizza sia di chi la subisce. Per affrontarla serve un’educazione digitale che vada oltre la tecnica, abbracciando anche l’etica, la psicologia e la sociologia. Nel mondo della persuasione digitale, chi sa leggere i meccanismi è anche chi può scegliere davvero.
Autore: by Antonello Camilotto 10 settembre 2025
Il termine Digital Detox indica la scelta consapevole di ridurre o sospendere temporaneamente l’uso di dispositivi digitali come smartphone, computer, tablet e social network. È una pratica che nasce dall’esigenza di ristabilire un equilibrio tra la vita online e quella offline, sempre più minacciato dall’iperconnessione tipica della società moderna. Perché nasce il bisogno di Digital Detox? Negli ultimi anni, il tempo trascorso davanti agli schermi è cresciuto in modo esponenziale. Notifiche continue, messaggi, email e aggiornamenti costanti ci tengono in uno stato di “allerta digitale” che può generare stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Il Digital Detox nasce quindi come risposta a: sovraccarico informativo, causato dal flusso incessante di notizie e contenuti; dipendenza da smartphone e social, che porta a controllare compulsivamente le notifiche; riduzione della qualità del sonno, legata alla luce blu degli schermi e all’uso serale dei dispositivi; calo della produttività, dovuto alla frammentazione dell’attenzione. Benefici del Digital Detox Prendersi una pausa dal digitale non significa rinunciare alla tecnologia, ma imparare a utilizzarla in modo più equilibrato. I principali vantaggi includono: maggiore concentrazione e produttività; riduzione dello stress e dell’ansia; miglioramento delle relazioni interpersonali, grazie a una comunicazione più autentica e senza distrazioni; migliore qualità del sonno; più tempo libero da dedicare a hobby, lettura o attività all’aperto. Come praticare il Digital Detox Non esiste un unico modo per intraprendere un percorso di Digital Detox: ciascuno può adattarlo al proprio stile di vita. Alcune strategie semplici sono: stabilire orari precisi in cui non usare dispositivi elettronici (ad esempio durante i pasti o prima di dormire); disattivare le notifiche non essenziali; dedicare almeno un giorno alla settimana senza social network; praticare attività che non richiedono tecnologia, come sport, meditazione o passeggiate; usare applicazioni che monitorano e limitano il tempo trascorso online. ๏ปฟ Il Digital Detox non è una moda passeggera, ma una pratica sempre più necessaria per preservare il benessere psicofisico. In un mondo dove la connessione è costante, scegliere di “staccare” diventa un atto di cura verso se stessi, utile a ritrovare equilibrio, consapevolezza e autenticità nei rapporti con gli altri e con il proprio tempo.
Autore: by Antonello Camilotto 9 settembre 2025
Nel mondo digitale di oggi, i blog sono diventati una parte integrante delle nostre vite online. Da fonti di informazioni personali a vere e proprie piattaforme di condivisione di conoscenze, i blog hanno una storia affascinante. In questo articolo, esploreremo la nascita del blog e la sua evoluzione nel corso degli anni. I primi passi La storia del blog risale agli anni '90, quando l'Internet stava iniziando a diffondersi nel mondo. Mentre molti siti web erano statici e controllati da poche persone, il concetto di "web log" o "blog" ha iniziato a prendere forma. Il termine "web log" fu coniato da Jorn Barger nel 1997 per descrivere la pratica di tenere un diario online di link interessanti. Questi primi blog erano essenzialmente elenchi di collegamenti e riflessioni personali, spesso aggiornati manualmente. La piattaforma di blogging di successo Il vero cambiamento avvenne nel 1999, quando Pyra Labs introdusse Blogger, una piattaforma di blogging che rese più accessibile la creazione di un blog personale. Blogger consentiva agli utenti di creare e gestire facilmente i propri blog senza la necessità di conoscenze tecniche approfondite. Questa piattaforma aprì le porte a milioni di persone che volevano condividere le proprie idee e esperienze online. La popolarità dei blog Con l'avvento di piattaforme di blogging come Blogger, la popolarità dei blog ha iniziato a crescere rapidamente. Le persone hanno scoperto che potevano creare contenuti personalizzati, condividere le proprie passioni e connettersi con gli altri attraverso i blog. I blog sono diventati un luogo in cui le persone potevano esprimere le proprie opinioni, fornire consigli, documentare i viaggi e molto altro ancora. La trasformazione dei blog in professione Negli anni successivi, i blog hanno cominciato a trasformarsi in fonti di reddito per alcuni. Gli inserzionisti hanno riconosciuto il potenziale dei blog come piattaforme pubblicitarie e hanno iniziato a collaborare con i blogger per promuovere i loro prodotti o servizi. Questo ha dato vita a una nuova forma di lavoro: il blogger professionista. Alcuni blogger sono riusciti a monetizzare le proprie passioni e talenti, trasformando il blogging in una vera e propria professione. L'evoluzione dei blog Con il passare degli anni, i blog hanno continuato a evolversi. Sono emerse piattaforme di blogging più avanzate e personalizzabili, consentendo ai blogger di creare siti web unici e accattivanti. I blog si sono arricchiti di immagini, video, podcast e interazioni sociali. Inoltre, con l'avvento dei social media, i blog hanno iniziato a integrarsi in un ecosistema più ampio, consentendo agli utenti di condividere i propri contenuti su diverse piattaforme e raggiungere un pubblico più vasto. La nascita del blog ha aperto nuove possibilità nella comunicazione digitale. Dai suoi umili inizi come elenco di collegamenti, il blog è diventato una forma di espressione personale, di condivisione di informazioni e di guadagno economico. Oggi, i blog sono una parte essenziale del panorama digitale, offrendo una vasta gamma di contenuti che spaziano dagli argomenti più seri a quelli più leggeri. La loro evoluzione continua a essere guidata dall'innovazione tecnologica e dalla voglia delle persone di condividere le loro storie con il mondo. ๏ปฟ
Autore: by Antonello Camilotto 9 settembre 2025
Il termine malware deriva dall’unione di “malicious” e “software” e indica qualsiasi programma informatico creato con l’intento di danneggiare un sistema, rubare informazioni o sfruttare risorse senza il consenso dell’utente. La sua storia è strettamente intrecciata con l’evoluzione dei computer e di Internet. Gli anni ’70 e ’80: i primi esperimenti I primi esempi di malware non avevano scopi criminali, ma erano perlopiù esperimenti accademici o dimostrazioni tecniche. Creeper (1971) : considerato il primo virus informatico, si diffondeva tra i computer DEC su rete ARPANET, mostrando il messaggio “I’m the creeper, catch me if you can!”. Elk Cloner (1982) : uno dei primi virus a colpire personal computer, diffondendosi tramite floppy disk sui sistemi Apple II. In questa fase, il malware era più che altro una curiosità tecnologica. Anni ’90: la diffusione di massa Con la popolarità dei PC e di Internet, i virus iniziarono a diffondersi rapidamente. Virus come Michelangelo o Melissa causarono enormi disagi, infettando migliaia di macchine in pochi giorni. Nacquero i primi antivirus, con lo scopo di individuare e rimuovere queste minacce. I malware iniziarono ad avere un impatto economico concreto, danneggiando aziende e utenti. Anni 2000: worm, trojan e botnet La crescente connessione a Internet aprì nuove possibilità ai cybercriminali. Worm come ILOVEYOU (2000) e Code Red (2001) sfruttavano vulnerabilità per diffondersi in modo autonomo. I trojan iniziarono a camuffarsi da software legittimi per ingannare gli utenti. Le botnet, reti di computer infetti controllati da remoto, divennero strumenti potenti per inviare spam o lanciare attacchi DDoS. Anni 2010: cybercrime organizzato Il malware si trasformò in un business. Gruppi criminali iniziarono a sviluppare software dannoso con fini economici. Ransomware come Cryptolocker e WannaCry cifravano i dati degli utenti chiedendo un riscatto in criptovalute. I malware bancari miravano a rubare credenziali e fondi. Emersero i kit di exploit venduti nel dark web, che abbassarono la barriera d’ingresso al cybercrime. Oggi: minacce sofisticate e mirate Il malware moderno è sempre più complesso e mirato. I rootkit e gli spyware cercano di restare nascosti il più a lungo possibile. I malware industriali, come Stuxnet, hanno mostrato che queste armi digitali possono persino sabotare infrastrutture critiche. Oggi il ransomware continua a essere la minaccia più redditizia, spesso gestito come un vero e proprio servizio (Ransomware-as-a-Service). La storia del malware riflette l’evoluzione della tecnologia e delle società digitali. Da semplici esperimenti, si è trasformato in uno strumento di criminalità organizzata, guerra informatica e spionaggio. Oggi la sfida principale non è solo tecnica, ma anche culturale: diffondere la consapevolezza e adottare comportamenti sicuri rimane il miglior modo per difendersi.
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