Migliorare la sicurezza con SSL e HTTPS

by antonellocamilotto.com


Il protocollo attivato dai certificati è il TLS, evoluzione del protocollo SSL; si continua comunemente a fare riferimento a questi certificati con il termine SSL.

Molti dei principali marchi globali hanno, da diverso tempo, adottato il protocollo sicuro. Si tratta di un processo di aggiornamento continuo, che assicura la protezione del dato e delle informazioni in transito. Per l’utente finale, ciò si traduce nella possibilità di navigare e usare servizi online beneficiando di una maggiore tutela in tutti i processi che lo interessano: durante l’acquisto online, nell’accesso a risorse personali, al conto corrente e ovunque si renda necessario inserire e far transitare dati sensibili.

Per aiutare i “naviganti” del Web, oggi, tutti i browser sono in grado di mostrare la tipologia di connessione, evidenziandola nella barra dell’indirizzo, accanto al dominio. Siti sicuri e con certificati SSL evoluti sono dunque accessibili senza ulteriori avvisi, mentre i portali che ancora non sono dotati di tale sistema sono segnalati come non sicuri (connessione non sicura).


Perché passare da HTTP a HTTPS?


Chi ha un sito Web di proprietà deve avviare il processo di messa in sicurezza. I motivi per farlo sono molti, oltre al più ovvio: rendere la connessione e la navigazione più sicura.

È opportuno menzionare anche che, con tali certificati, aiutiamo il cliente a capire che la connessione tra il suo browser ed il sito internet è sicura e, a seconda del tipo di certificato in uso, che sono state fatte verifiche aggiuntive di vario tipo sull'organizzazione che gestisce il sito.

Un altro motivo per passare da HTTP a HTTPS è il miglioramento del posizionamento SEO del sito stesso, come vedremo più in dettaglio in seguito.
Per facilitare questo passaggio i provider di servizi web hanno messo a disposizione certificati SSL DV (Secure Sockets Layer, Domain Validated). In questo modo, gli utenti che accedono al sito sono protetti attraverso la cifratura della sessione di navigazione con chiavi da 128 bit o superiori. Ad oggi, questa è prassi comune, a tal punto che i principali player hosting.

Questa scelta favorisce il processo di aggiornamento globale di tutti i siti Web, vecchi e nuovi. Avendo a disposizione un certificato incluso nel canone di gestione del sito, molti utenti e imprese potranno attivare comunicazioni e trasmissioni dati protette, contribuendo a una più ampia diffusione del protocollo stesso.

Il certificato SSL DV verifica che il dominio sia assegnato o sia sotto il controllo del richiedente e, grazie alla cifratura, tutti i visitatori del sito web o eCommerce possono trasmettere informazioni ed effettuare transazioni online in modo protetto.
In più, il certificato SSL DV è un servizio utile alla conformità al GDPR grazie alla trasmissione cifrata, che evita la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi.
Questo è possibile grazie all’uso del protocollo sicuro di comunicazione HTTPS, che garantisce la trasmissione crittografata dei dati tra un client ed un server, e il sistema di cifratura, che assicura un’adeguata protezione dei dati personali da trattamenti non autorizzati o illeciti.

L’architettura di base prevede la cifratura dello scambio di informazioni. Solo l’utente che stabilisce il collegamento e il server sul quale il sito Web è ospitato avranno accesso alle informazioni. Il processo operativo include la disponibilità di un certificato, l’autenticazione dello stesso e la generazione di chiavi numeriche. La chiave privata è installata sul server e permette la generazione di cache di certificazione per il sito in oggetto. La chiave pubblica invece, che è sempre parte del certificato SSL, viene installata sul tuo sito.


Installazione e servizi


L'utilizzo di un certificato SSL garantisce la crittografia end-to-end: i dati non saranno intercettabili e rimarranno accessibili solo a chi li invia e a chi li riceve. Questo livello di sicurezza può essere portato a termine in pochi passaggi e a un costo ridotto. Ad esempio, con antonellocamilotto.com, il certificato SSL è incluso gratuitamente in tutti i piani hosting.


I certificati SSL emessi sono supportati dai principali browser su tutte le principali piattaforme client. Con queste componenti, utenti e piattaforme di destinazione potranno così verificare l’origine e l’integrità di tali componenti software, proteggendo PC e reti da malware e minacce.


Browser e motori di ricerca


Come anticipato, Web browser e, naturalmente, i motori di ricerca, sono sempre più ottimizzati e attenti a ogni aspetto che riguarda i siti pubblicati. Tra i browser più utilizzati, Google Chrome, già dalla release 68, incorpora un meccanismo di segnalazione per tutti i siti sprovvisti di certificato SSL, che sono indicati come “non sicuri”.

Non solo, a livello di ricerca online, Google sta indicizzando i siti anche in base all’uso di HTTPS. All’atto pratico, ciò significa che i siti che dispongono di questo protocollo tramite certificato SSL sono soggetti a un migliore posizionamento globale.
E non si tratta solo di migliorare il proprio ranking online: avere un sito più sicuro infonde maggiore sicurezza negli utenti e nei potenziali acquirenti di un eCommerce.
Un sito sicuro e il noto “lucchetto” riportato vicino all’indirizzo rappresentano importanti segnali per chi si avvicina per la prima volta. Si tratta di credenziali di non poco conto e strumenti utili anche per potenziare visibilità e reputazione del marchio rappresentato.

Se l’utente percepisce una superiore attenzione alla sicurezza e alla privacy dei propri dati sarà certamente predisposto a fidarsi del sito e dei servizi proposti. Questo perché, oggi più che in passato, il Web è parte integrante della nostra vita quotidiana, delle nostre relazioni personali e delle interazioni con il mondo del lavoro.


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Autore: by Antonello Camilotto 11 dicembre 2025
La chiocciola, oggi onnipresente negli indirizzi di posta elettronica, non è affatto un’invenzione moderna né tantomeno un simbolo nato con l’informatica. La sua storia affonda le radici in un passato sorprendente, in cui l’uso del carattere era completamente diverso da quello che conosciamo. Prima di diventare l’elemento distintivo delle email, il simbolo era impiegato in contesti commerciali e contabili. In documenti antichi, soprattutto di area anglosassone, veniva utilizzato come abbreviazione per indicare una tariffa o un prezzo unitario, con il significato di “al costo di”. Questa funzione pratica permetteva ai mercanti di annotare più velocemente quantità e valori nelle proprie registrazioni. Altre tradizioni attribuiscono alla chiocciola un ruolo nelle trascrizioni medievali: alcuni amanuensi europei l’avrebbero utilizzata come variante grafica della preposizione latina “ad”, che esprimeva un moto a luogo o un rapporto tra quantità. La forma arrotondata e avvolgente che conosciamo oggi potrebbe essersi evoluta proprio da tali abbreviazioni, frutto dello stile di scrittura del tempo. Fu solo negli anni Settanta del Novecento che la chiocciola venne scelta dal programmatore Ray Tomlinson come simbolo ideale per distinguere il nome dell’utente dal dominio all’interno del primo sistema di posta elettronica della storia. Un carattere poco utilizzato, privo di significati ambigui e presente nelle tastiere: le ragioni pratiche del suo impiego finirono per trasformarlo nella vera e propria icona del mondo digitale. Oggi la chiocciola è molto più di un semplice segno grafico: rappresenta comunicazione, connessione e presenza online. Eppure, dietro la sua apparente modernità, si nasconde un lungo percorso storico che attraversa mercati, manoscritti e rivoluzioni tecnologiche. ๏ปฟ
Autore: by Antonello Camilotto 11 dicembre 2025
Nel corso degli ultimi anni la Chiesa si è trovata immersa in un contesto profondamente trasformato dalla rivoluzione digitale. Social network, piattaforme di streaming, intelligenza artificiale e nuovi linguaggi comunicativi hanno modificato non solo il modo in cui si diffondono informazioni e opinioni, ma anche le modalità con cui le istituzioni religiose possono dialogare con fedeli e non credenti. Il processo di digitalizzazione, accelerato dalla pandemia, ha costretto molte diocesi ad adottare strumenti fino a poco prima considerati marginali: messe trasmesse in diretta, catechesi via webinar, incontri parrocchiali su piattaforme online. Sebbene inizialmente tutto ciò sia sembrato un ripiego, l’esperienza ha invece mostrato un potenziale inatteso. Il digitale può diventare un ponte, un luogo di incontro che supera distanze geografiche e barriere sociali. Non mancano tuttavia le sfide. La comunicazione online richiede nuovi codici: immediatezza, sintesi, capacità di intercettare dinamiche spesso lontane dal linguaggio tradizionale ecclesiale. La presenza della Chiesa nei social deve dunque confrontarsi con il rischio della superficialità, delle polarizzazioni e della diffusione di informazioni non verificate. In questo contesto, la credibilità diventa un elemento essenziale: un messaggio evangelico tradotto in forme moderne non può prescindere da una testimonianza coerente. Accanto alle difficoltà emergono anche nuove opportunità pastorali. Le piattaforme digitali aprono spazi di ascolto particolarmente preziosi per chi vive ai margini della comunità o fatica ad avvicinarsi alle istituzioni religiose. Gruppi di preghiera online, percorsi formativi multimediali, progetti missionari sui social diventano strumenti capaci di raggiungere pubblici che in passato rimanevano invisibili. La domanda che si pone oggi non è più se la Chiesa debba abitare l’ambiente digitale, ma come farlo in modo responsabile, creativo e fedele alla propria identità. La sfida consiste nel trasformare il web da semplice canale di comunicazione in uno spazio reale di relazione, dialogo e annuncio. Una sfida che, sempre più, rappresenta uno dei fronti decisivi per il futuro della comunità cristiana. ๏ปฟ
Autore: by Antonello Camilotto 11 dicembre 2025
Quando oggi pensiamo alla messaggistica istantanea, ci vengono in mente WhatsApp, Telegram, Messenger o Signal. Ma l’idea di comunicare in tempo reale tramite una rete di computer è molto più antica di quanto si possa immaginare. Prima degli smartphone, prima di Internet, e persino prima dei PC come li conosciamo oggi, qualcuno aveva già inventato la chat istantanea. Era il 1973. E quello strumento si chiamava Talkomatic. Le origini: PLATO e la nascita di un’idea rivoluzionaria Talkomatic nasce all’interno del progetto PLATO (Programmed Logic for Automatic Teaching Operations), un sistema educativo computerizzato sviluppato presso l’Università dell’Illinois. PLATO è ricordato per molte innovazioni pionieristiche: display al plasma, giochi multiplayer, forum, email e, appunto, la chat in tempo reale. Nel 1973 gli sviluppatori Doug Brown e David R. Woolley crearono Talkomatic, una piattaforma di comunicazione dove più utenti potevano entrare in "canali" tematici e digitare messaggi che comparivano sullo schermo degli altri lettera per lettera, in tempo reale. A differenza delle chat moderne, dove il messaggio viene inviato solo quando si preme “Invio”, con Talkomatic gli utenti vedevano ciò che gli altri scrivevano istantaneamente, carattere dopo carattere. Un’esperienza di comunicazione sorprendentemente “dal vivo”, quasi paragonabile a una conversazione vocale. Un successo inatteso In poco tempo Talkomatic divenne una delle funzioni più popolari dell’intero sistema PLATO. Venne usato dagli studenti, dagli insegnanti e persino dai tecnici che lavoravano sui server. Nonostante le limitazioni tecnologiche dell’epoca — computer costosissimi, accesso remoto tramite linee telefoniche lente — il bisogno umano di comunicare in modo immediato trovò spazio in questa innovazione. La lenta scomparsa e la rinascita Con la fine del progetto PLATO e l’arrivo dei nuovi sistemi informatici, Talkomatic scomparve gradualmente. Ma la sua eredità continuò a vivere, influenzando le prime chat IRC, i messenger degli anni ’90 e, più in generale, l’intero concetto di messaggistica istantanea moderna. Nel 2014, uno dei suoi creatori, David R. Woolley, decise di riportarlo in vita online, ricreando una versione accessibile via web basata sul funzionamento originale: stanze di chat pubbliche, messaggi che scorrono lettera per lettera, interfaccia minimalista e un sapore fortemente retro. Perché oggi ha ancora un fascino particolare Oggi Talkomatic sopravvive come una sorta di museo vivente di Internet. È un pezzo di storia interattiva, che permette di fare un salto nel passato e provare cosa significasse comunicare ai primissimi giorni delle reti digitali. Il fascino di Talkomatic risiede proprio nella sua semplicità: nessuna criptazione o sticker animati; nessuna registrazione o profilo; solo utenti che digitano e vedono digitare gli altri. È un’esperienza che, paradossalmente, appare più “umana” di molte forme di comunicazione moderne. Un’eredità che continua Parlare di Talkomatic significa raccontare la nascita di una delle funzioni più utilizzate al mondo: la chat. Oggi decine di miliardi di messaggi vengono scambiati ogni giorno, ma tutto è iniziato da un esperimento universitario, un terminale al plasma e la visione di due programmatori. ๏ปฟ A 52 anni dalla sua creazione, Talkomatic non è solo un cimelio tecnologico: è un promemoria di quanto la necessità di comunicare sia alla base di ogni evoluzione digitale.
Autore: by Antonello Camilotto 11 dicembre 2025
Quando oggi parliamo di chatbot, assistenti virtuali e intelligenze artificiali conversazionali, è facile dimenticare che tutto ebbe inizio negli anni Sessanta, ben prima dell’era dei computer personali e di Internet. In quell’epoca pionieristica nacque ELIZA, considerata il primo chatbot della storia: un software sorprendentemente moderno per il suo tempo, capace di simulare una conversazione con un essere umano. Le origini: Joseph Weizenbaum e il MIT ELIZA fu sviluppata nel 1966 da Joseph Weizenbaum, informatico e ricercatore del MIT. Il suo obiettivo iniziale non era creare un sistema intelligente, bensì dimostrare quanto potesse essere ingannevolmente semplice simulare la comprensione linguistica tramite un insieme di regole. Il programma analizzava il testo inserito dall’utente e cercava determinate parole chiave. In base a queste, sceglieva una risposta costruita secondo schemi predefiniti. Non “capiva” realmente ciò che veniva detto, ma imitava abilmente uno stile conversazionale coerente. Il celebre script: DOCTOR Tra i vari script che Weizenbaum implementò, il più famoso fu DOCTOR, una simulazione di uno psicoterapeuta rogersiano. Questo approccio psicologico, basato sull’ascolto attivo e sulla riformulazione delle frasi del paziente, si prestava perfettamente alla logica del programma. Esempio tipico: Utente: "Sono triste perché litigo spesso con mia madre." ELIZA: "Mi parli di sua madre." La forza di DOCTOR stava proprio nel restituire all’utente le sue parole, ponendole in forma di domanda. Una tecnica semplice, ma capace di creare l’illusione di un dialogo empatico. La reazione delle persone Weizenbaum rimase lui stesso sorpreso dalla reazione che ELIZA suscitò. Molti utenti, pur sapendo che si trattava di un programma, tendevano a instaurare un rapporto emotivo con esso. Alcuni suoi colleghi arrivarono a chiedergli di lasciare la stanza per parlare con ELIZA “in privato”. Questa risposta emotiva spinse Weizenbaum a riflettere profondamente sui rischi psicologici e sociali dell’affidarsi alle macchine per conversazioni sensibili, ponendo le basi per un dibattito etico ancora attuale. Perché ELIZA è ancora importante Sebbene elementare rispetto ai sistemi moderni, ELIZA rappresenta una pietra miliare per diversi motivi: È il primo esempio di elaborazione del linguaggio naturale applicato a una conversazione. Ha mostrato come la forma del linguaggio possa creare illusione di comprensione, anche senza intelligenza reale. Ha inaugurato il filone dei dialog systems, precursori dei chatbot contemporanei. Ha sollevato domande etiche fondamentali sulla relazione uomo-macchina. L’eredità di ELIZA Oggi assistenti come ChatGPT, Alexa o Siri usano tecniche immensamente più avanzate, ma il principio che ELIZA introdusse — la possibilità di interagire con una macchina attraverso il linguaggio naturale — resta centrale. ELIZA rimane un simbolo dell’inizio di un percorso che continua a trasformare il nostro rapporto con la tecnologia. In un’epoca in cui i chatbot partecipano a conversazioni complesse, generano testi e persino emozioni, ricordare ELIZA significa riconoscere il punto di partenza di una delle rivoluzioni più affascinanti della storia dell’informatica.
Autore: by Antonello Camilotto 11 dicembre 2025
Negli ultimi anni, il ruolo degli algoritmi dei social network nel plasmare l’opinione pubblica è diventato un tema centrale nel dibattito pubblico. Piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok e X (ex Twitter) selezionano e mostrano contenuti in base alle preferenze degli utenti, con l’obiettivo dichiarato di massimizzare il coinvolgimento. Ma questa personalizzazione può trasformarsi in un meccanismo capace di influenzare, se non addirittura alterare, le opinioni politiche. Gli esperti parlano spesso di “bolle informative”: spazi digitali in cui gli utenti vengono esposti principalmente a contenuti che confermano le proprie convinzioni. Gli algoritmi, riconoscendo ciò che piace o indigna, tendono a proporre materiale simile, limitando la diversità di punti di vista. Questo processo, in apparenza innocuo, può però amplificare polarizzazione e radicalizzazione. La questione si complica ulteriormente in periodo elettorale. Studi accademici mostrano che la semplice modifica dell’ordine delle notizie o delle raccomandazioni può influenzare le percezioni di affidabilità delle fonti e persino il comportamento di voto. Pur non essendoci prove definitive di manipolazioni su larga scala, il potenziale è sufficiente a preoccupare sociologi e regolatori. Le piattaforme respingono le accuse, sostenendo che gli algoritmi non hanno fini politici e che le scelte degli utenti restano il fattore principale. Tuttavia, mentre i governi discutono nuove norme sulla trasparenza, restano aperte domande cruciali: quanto davvero questi sistemi incidono sulla democrazia? E soprattutto, chi controlla chi controlla gli algoritmi? ๏ปฟ
Autore: by Antonello Camilotto 9 dicembre 2025
In ambito informatico, è comune sentire parlare di “schermo blu della morte” o "Blue Screen of Death" (BSOD). Questo fenomeno è tanto temuto dagli utenti quanto affascinante per chi cerca di comprendere le dinamiche interne dei sistemi operativi. Ma perché, quando si verifica un guasto informatico, lo schermo del computer diventa blu? Cerchiamo di approfondire l'argomento. L'origine dello schermo blu Il termine BSOD è legato principalmente ai sistemi operativi Microsoft Windows. Si tratta di un errore di sistema critico che costringe il computer a interrompere tutte le operazioni per prevenire danni ulteriori. L'apparizione dello schermo blu è accompagnata da un messaggio di errore che offre informazioni sul tipo di problema riscontrato. Scelta del colore blu La scelta del colore blu per lo schermo di errore non è casuale. Ci sono diverse ragioni per cui Microsoft ha optato per questo colore specifico: 1. Visibilità e contrasto: Il blu, soprattutto in tonalità scura, offre un buon contrasto con il testo bianco o giallo, rendendo le informazioni sull'errore più leggibili. Questa caratteristica è cruciale, poiché l'utente deve poter leggere e interpretare il messaggio di errore per poter prendere le opportune azioni correttive. 2. Calma e professionalità: Psicologicamente, il colore blu è associato alla calma e alla professionalità. Di fronte a un problema grave del sistema, è importante non allarmare eccessivamente l'utente. Un colore come il rosso, per esempio, potrebbe indurre un senso di urgenza e panico. 3. Standardizzazione e riconoscibilità: Utilizzare uno stesso colore per tutti i messaggi di errore gravi aiuta a creare uno standard riconoscibile dagli utenti. Nel tempo, lo schermo blu è diventato sinonimo di guasto critico, facilitando la comunicazione tra utenti e tecnici informatici. Cause del BSOD Lo schermo blu può apparire per diversi motivi, tra cui: 1. Errori hardware: Problemi con la memoria RAM, guasti al disco rigido, o malfunzionamenti della scheda madre possono causare il BSOD. Questi problemi sono spesso legati a componenti fisici del computer. 2. Driver malfunzionanti: I driver sono software che permettono al sistema operativo di comunicare con l'hardware. Driver corrotti, incompatibili o mal configurati possono portare a gravi errori di sistema. 3. Software e aggiornamenti: Alcuni software possono causare conflitti con il sistema operativo, specialmente se non sono stati testati accuratamente. Anche aggiornamenti di sistema non riusciti possono provocare il BSOD. 4. Virus e malware: Software dannoso può corrompere file di sistema o alterare il funzionamento del computer, portando a errori critici. Come affrontare il BSOD Di fronte a uno schermo blu, è importante mantenere la calma e seguire alcuni passaggi per risolvere il problema: 1. Leggere il messaggio di errore: Spesso, lo schermo blu fornisce un codice di errore o un messaggio che può indicare la causa del problema. 2. Riavviare il computer: A volte, un semplice riavvio può risolvere problemi temporanei. Tuttavia, se il BSOD persiste, è necessario indagare ulteriormente. 3. Aggiornare i driver: Assicurarsi che tutti i driver siano aggiornati e compatibili con il sistema operativo. 4. Controllare l'hardware: Eseguire test diagnostici sulla memoria e sui dischi rigidi può aiutare a identificare eventuali guasti hardware. 5. Scansione antivirus: Eseguire una scansione completa del sistema per rilevare e rimuovere eventuali malware. Lo schermo blu della morte è una manifestazione visiva di un problema critico nel sistema operativo. Sebbene possa sembrare un evento catastrofico, è un meccanismo di protezione che aiuta a prevenire danni maggiori. Comprendere le cause del BSOD e sapere come affrontarlo può aiutare gli utenti a risolvere i problemi più rapidamente e con maggiore efficacia. E ricordate: dietro ogni schermo blu c'è un'opportunità per imparare di più sul funzionamento interno dei nostri fidati computer.
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