L'evoluzione del Web

by antonellocamilotto.com


La vita moderna pianta fortemente le sue radici su internet, influenza e determina il modo in cui ci comportiamo in maniera persistente. Ma il web non è sempre stato così.


L’evoluzione del Web


Negli ultimi 30 anni il Web si è evoluto in maniera vertiginosa, non solo da un punto di vista estetico, ma anche applicativo e concettuale. Storicamente viene diviso in 3 fasi:


  • Web 1.0: circa dal 1991 al 2004
  • Web 2.0: dal 2004 ad ora
  • Web 3.0: dal pochi anni ad ora


La transizione tra queste fasi ovviamente non è netta, non esiste una data sul calendario in cui si è passati dal Web 1.0 al Web 2.0.


Cosa è il Web 1.0?


Questa è la prima fase del Web (leggermente diverso dal concetto di internet, che esisteva da prima del Web 1.0, si pensi ad IRC). Gli utenti che partecipavano, che lo utilizzavano, erano puri spettatori. Non esisteva interazione, tutti i siti erano delle vetrine statiche e l’unica cosa che si poteva fare era leggere e riprodurre contenuti presenti in quella pagina. L’unica forma di interazione che si associa al Web 1.0 sono i primi forum, un concetto estremamente lontano dai social network a cui siamo abituati oggi.


Non si poteva essere creatori, ma solo spettatori. Il ruolo di creatore era riservato agli sviluppatori. Non esistevano metodi semplici per creare contenuti sul web (post su Instagram, pagine Facebook, ecc.).


Cosa è il Web 2.0?


Il Web 2.0, anche noto come Web2, è quello che la maggior parte di noi ha utilizzato per la prima volta, il nostro primo approccio ad internet. Il Web2 è considerato il Web Sociale, caratterizzato da una immensa possibilità di essere creatori di contenuti senza dover avere competenze di programmazione. Le applicazioni, come ogni social network, sono sviluppate per far si che chiunque possa partecipare alla modellazione e alla creazione di nuovi contenuti nel Web2. Ed è proprio questa semplicità che ha reso popolare il Web.


Monetizzazione nel Web 2.0


Cerchiamo di ricordare come sono nati i primi social network: Instagram, Facebook, Twitter o YouTube. I passaggi sono sempre gli stessi:


  • L’azienda lancia l’app
  • Si cerca di attrarre più persone possibili e stabilire una user-base
  • Si monetizza la user-base


La maggior parte delle compagnie come prima cosa cerca di rendere il servizio il più semplice possibile, niente pubblicità invasive e Ads di alcun genere. Il primo obiettivo è far iscrivere più persone possibile, diventare un cult. Una volta che il cult si è affermato, allora è arrivato il momento di monetizzare, di trarre profitti dall’investimento fatto.


Spesso per monetizzare e sopravvivere vengono introdotti investitori esterni. Ma chi investe in un progetto, poi pretende risultati da quella azienda, vuole un beneficio di tipo economico. E la storia spesso ci insegna che questo porta sempre a svantaggi da parte dell’utente, un peggioramento dell’esperienza generale.


Uno dei modi più comuni e proficui con cui monetizzare grandi progetti come quelli dei social network è la vendita dei dati personali. Per molte compagnie che vivono sul Web2, come Google e Facebook, avere più dati vuol dire più Ads personalizzati. Che portano a più click e più guadagni. Ed è questa la base fondamentale su cui si basa il Web2: la centralizzazione di enormi quantità di dati, divisi in data-center in mano alle Big Tech companies. La centralizzazione dei dati porta a problemi di sicurezza, principalmente caratterizzati dai così detti data-breaches.


Il Web3 nasce con lo scopo ben preciso di risolvere questi problemi, ridisegnando i fondamentali dell’architettura di internet e su come gli utenti interagiscono con le applicazioni.


Cosa è il Web 3.0


La differenze tra il Web2 e il Web3 sono tante, ma il concetto alla base è uno solo: decentralizzazione.

Questa parola riecheggia da qualche anno su internet ogni volta che si parla di blockchain e crypto valute. Ma come la si applica a questa nuova idea di Web?


Il Web 3.0 migliora il concetto di internet così come lo conosciamo oggi aggiungendo delle caratteristiche chiave. Il Web3 deve avere soddisfare questi parametri:


  • Verificabilità
  • Assenza di doversi fidare di intermediari (trustless)
  • Self-Governing
  • Permissionless
  • Distribuito e robusto
  • Pagamenti nativi


Andiamo a vedere questi paroloni cosa vogliono dire. La grossa differenza lato sviluppo è che un developer non creerà più applicazioni che vengono eseguite su un singolo server che salva i dati in un singolo database (che di norma a sua volta è hostato e gestito da un singolo cloud provider).


Adesso le applicazioni Web 3.0 verranno eseguite su blockchain, network decentralizzati con svariati nodi (server) peer-to-peer. O in generale, una combinazione del vecchio metodo con questo più moderno. Spesso queste applicazioni vengono chiamate Dapps, ovvero decentralized applications.


Quando sentiamo parlare di Web3, il discorso è sempre accompagnato dalle crypto valute. Queste giocano un ruolo fondamentale all’interno di questi protocolli. Garantiscono un incentivo economico (token) per chiunque voglia partecipare nel creare, governare, contribuire o migliorare uno di questi progetti.


Questi protocolli di norma offrono una svariata scelta di servizi che fino ad ora, erano garantiti solo dai grandi cloud provider: computing, storage, banda, identità, hosting etc. Nel Web3 la storia cambia radicalmente: i soldi (o meglio, la currency) spesi per determinati servizi non vanno ad un singolo ente centralizzato, ma vengono distribuiti direttamente a tutti i validatori del network sotto forma di gas-fees. Anche protocolli su blockchain native come Ethereum operano in questa maniera.


Pagamenti nativi


I Token di cui abbiamo appena parlato introducono anche il layer dei pagamenti nativi. Un sistema senza frontiere di stati o intermediari di terze parti.


Fino ad ora, aziende centralizzate come Stripe e PayPal hanno fatto miliardi di dollari gestendo i pagamenti online. Questi metodi però non hanno la libertà e la interoperabilità che si riesce a raggiungere tramite blockchain. Inoltre questi servizi richiedono necessariamente l’inserimento dei nostri dati personali per poter eseguire operazioni.


All’interno di applicazioni Web3, delle Dapps, è possibile integrare un Crypto Wallet. Il più famoso è per esempio MetaMask (nulla a che vedere con Meta, ex Facebook).


Per quanto riguarda l’utilizzabilità e la semplicità dei pagamenti all’interno delle blockchain, è un discorso molto più complesso che non tratteremo in questo articolo. Il concetto che ci interessa è questo: a differenza dell’attuale sistema finanziario moderno, gli utenti all’interno del Web3 non devono passare attraverso svariati sistemi intricati di identificazione per usufruire un servizio finanziario. Tutto quello che serve è avere un Wallet che supporta il network con il quale vogliamo interagire e possiamo inviare e ricevere pagamenti, senza bisogno dell’approvazione di una banca o di una compagnia esterna.


Una nuova idea di costruire aziende


Con l’introduzione dei Token, nasce il concetto di tokenizzazione e realizzazione della token economy.


Cerchiamo di capire con un esempio semplice come funziona. Supponiamo di voler creare un’azienda, per poter mettere in atto questa idea che abbiamo avuto abbiamo bisogno di soldi per pagare sviluppatori e tutto ciò di cui avremo bisogno.


Allo stato della finanza attuale, di norma si assume un venture capital e si da via una percentuale di azienda. Questo tipo di investimento introduce immediatamente inevitabilmente degli incentivi spesso mal posti che sul lungo periodo andranno ad intaccare l’esperienza utente. Ma supponiamo che questo progetto comunque vada bene, spesso ci vogliono anni prima di avere un ritorno economico effettivo.

Nel Web3 la storia è diversa. Immaginiamo che qualcuno proponga un progetto basato su un’idea che noi ed altre persone condividiamo e supportiamo. Nel Web3 tutti possono partecipare al progetto dal day-one. La compagnia annuncerà il rilascio di un determinato numero di Token, e darà ad esempio il 10% ad i primi sviluppatori, il 10% in vendita la pubblico, ed il resto da parte per futuri pagamenti.


I detentori del Token, così detti StakeHolders, potranno utilizzare i loro Token per votare cambiamenti o decisioni riguardo il futuro del progetto in cui hanno creduto ed investito dal primo giorno. Gli sviluppatori che hanno contribuito invece, potranno vendere i loro Token una volta rilasciati in modo da ricevere un pagamento per il loro lavoro.


Il tutto è estremamente libero: se supportiamo il progetto, compriamo token e non li vendiamo, il così detto Holding. Se ad un certo punto non ci troviamo più in linea con il percorso che sta prendendo questo progetto, possiamo vendere i nostri token in qualsiasi momento.

Un esempio pratico di applicazione del concetto: un’alternativa non centralizzata a Github.


La differenza rispetto al precedente stato del Web è ormai chiara: quello che succede su internet è in mano agli investitori, non a pochissime grandi aziende come Google e Facebook. È un mondo decentralizzato, i Token Holders sono coloro che controllano il futuro dell’asset e per questo vengono ricompensati: tramite mining nel caso di una Proof of Work, detenendo token nel caso di Proof of Stake (o altre forme ibride).


Identità nel Web 3.0


Nel Web3 il concetto di identità vira in una direzione totalmente diversa da quella a cui siamo abituati oggi: non esistono combinazioni di email + password, preceduti da lunghi processi di verifica dell’identità.


Nella maggior parte delle Dapps la nostra identità è strettamente legata all’indirizzo del nostro wallet che stiamo utilizzando per interagire con il network. Nel caso di una Dapps sviluppata su Ethereum, come ad esempio UniSwap, l’identità sarà il nostro Ethereum Adress.

A differenza dei tradizionali sistemi utilizzati nel Web2, l’identità nel Web3 diventa totalmente anonima, o meglio: pseudonima. A meno che ovviamente non sia l’utente stesso a decidere altrimenti.


L’Ethereum Foundation ha sviluppato un RFP (request for proposal), uno strumento che ci permette di registraci tramite Ethereum.


Smart Contract: lo strumento alla base del Web 3.0


Uno “smart contract” è un semplice pezzo di codice che viene eseguito nella blockchain, ad esempio su Ethereum. Questi “contratti” garantiscono di eseguire un determinata azione e di produrre lo stesso risultato per chiunque lo utilizzi. Li abbiamo visti utilizzati in una moltitudine di Dapps: possono essere integrati in giochi, NFF, sistemi di votazione online e prodotti di tipo finanziario di svariato genere.


Capiamo con un esempio pratico cosa è uno smart contract.


Immaginiamo una classica macchinetta che vende merendine, il più semplice esempio che possiamo pensare. Quella macchina è un sistema hardware, che esegue un determinato programma, un software con delle indicazioni ben precise. Quando inseriamo la giusta quantità di monetine al suo interno ed inseriamo il numero del prodotto, la macchinetta ci restituirà il prodotto scelto.


Allo stesso modo in una blockchain, questi “contratti” posso trattenere del valore, ad esempio sotto forma di Token, che rilasceranno solo se delle precise condizioni decise in precedenza verranno innescate.


Questo concetto esiste da tempo, con l’introduzione delle blockchain e del Web 3.0, siamo riusciti a renderlo trustless. Immaginiamo di fare un scommessa tra amici, il primo a raggiungere 100 punti ad un gioco, vince una determinata quantità di denaro (currency). Ma come facciamo a fidarci che se vinciamo, il nostro amico ci darà davvero i soldi che ci spettano? Fino ad ora per ovviare a questo problema della fiducia, ci si affidava ad un terzo, nel nostro caso un terzo amico. Ma siamo davvero sicuri che questo amico non sia contro di noi, magari è corrotto. Con il Web 3.0 questo problema scompare: una volta deciso il palio di vincita e le condizioni, entrambi i partecipanti depositano nello smart contract la quantità scommessa. Questo bloccherà il denaro e solo una volta che il primo dei due amici raggiungerà 100 punti, lo smart contract darà il palio totale al vincitore.


Conclusioni finali


Con il Web 3.0, ogni persona, macchina o azienda sarà capace di scambiare valore, informazioni e lavoro con chiunque nel mondo, senza bisogno di avere un contatto di fiducia diretto o un intermediario di terze parti.


La più importante evoluzione nel Web 3.0 è la minimizzazione della fiducia necessaria per coordinare operazioni a livello globale.

Il Web3 espanderà in maniera fondamentale la scala e lo scopo delle interazioni tra persone e tra macchine, molto oltre quello che riusciamo ad immaginare oggi. Questo passaggio attiverà una nuova onda di business model fino ad ora inimmaginabili.


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Autore: by Antonello Camilotto 24 aprile 2025
A sei anni, sanno già scrivere le prime righe di codice. A dieci, costruiscono robot con sensori e intelligenza artificiale di base. A dodici, partecipano a competizioni nazionali di programmazione. In Cina, il futuro non è domani: è oggi, ed è scritto nel linguaggio dell’algoritmo. Il governo cinese ha scelto una rotta chiara: rendere l’intelligenza artificiale una materia fondante del percorso scolastico fin dalle elementari. Una decisione che riflette un’ambizione precisa: fare della Cina il leader globale dell’IA entro il 2030. E per farlo, serve iniziare dai banchi di scuola. L’IA entra nei programmi scolastici Dal 2018, il Ministero dell’Istruzione cinese ha cominciato a introdurre corsi di IA in centinaia di scuole elementari e medie, in un progetto pilota poi esteso a livello nazionale. Nelle aule, tra lavagne digitali e tablet, gli studenti non solo imparano cos’è un’intelligenza artificiale, ma la mettono in pratica. Si cimentano con il coding, costruiscono piccoli robot, apprendono le basi del deep learning. I libri di testo dedicati all’IA sono già una realtà per milioni di studenti. Le lezioni, spesso condotte da insegnanti formati in collaborazione con aziende tech, mirano a sviluppare il pensiero logico, la creatività e l’abilità di risolvere problemi complessi: competenze chiave per il mondo del lavoro che verrà. L’alleanza tra Stato e big tech Il progetto non è solo scolastico: è sistemico. Colossi come Baidu, Tencent e Alibaba sono partner attivi di questo grande esperimento educativo. Offrono piattaforme, software educativi, kit didattici e organizzano competizioni su scala nazionale. Ogni anno si svolgono centinaia di gare di robotica e coding nelle scuole, dove migliaia di giovani mettono alla prova le proprie abilità in scenari sempre più realistici. Alcuni vincono borse di studio, altri entrano nei radar delle aziende prima ancora di diplomarsi. Educazione o pressione? Il modello, però, non è privo di critiche. Alcuni esperti sottolineano come questa spinta verso l’innovazione tecnologica rischi di aumentare lo stress sui bambini e limitare l’apprendimento umanistico. “Il rischio è che si crei una generazione tecnicamente brillante ma poco abituata al pensiero critico indipendente”, avverte un docente universitario di Pechino. Altri, invece, vedono in questa strategia un esempio da seguire. In Occidente, l’educazione all’IA è ancora frammentaria e spesso relegata a iniziative extracurricolari. In Cina, è parte integrante del piano educativo nazionale. Il futuro in miniatura Guardando questi bambini cinesi mentre programmano e creano, si ha la sensazione che stiano già vivendo in un tempo che altrove è ancora immaginato. Per la Cina, il futuro dell’intelligenza artificiale non è solo una questione economica o geopolitica: è una sfida educativa. E si gioca oggi, tra i banchi di scuola. Una cosa è certa: nella corsa globale all’intelligenza artificiale, Pechino ha messo il turbo. E ha deciso di partire dai più piccoli.
Autore: by Antonello Camilotto 23 aprile 2025
In un periodo in cui la conoscenza sembra essere a portata di click, spesso ci dimentichiamo di chi, dietro le quinte, lavora instancabilmente per costruire, correggere e arricchire le fonti da cui attingiamo quotidianamente. Uno di questi custodi della conoscenza è Steven Pruitt, definito da molti come l’eroe silenzioso di Wikipedia. Chi è Steven Pruitt? Nato nel 1984 a San Antonio, Texas, e cresciuto a Virginia Beach, Steven Pruitt è un archivista americano e soprattutto un prolifico editor di Wikipedia. Conosciuto online con lo pseudonimo Ser Amantio di Nicolao (nome ispirato a un personaggio dell'opera "Gianni Schicchi" di Puccini), Pruitt è stato riconosciuto come l’utente più attivo nella storia dell’enciclopedia libera. Nel corso degli anni, ha effettuato oltre 5 milioni di modifiche e ha creato più di 35.000 voci. Una cifra impressionante, soprattutto se si considera che lo fa volontariamente, mosso unicamente dalla passione per la conoscenza e la condivisione del sapere. Il suo impatto sulla conoscenza globale Il contributo di Pruitt va ben oltre la quantità: la qualità e l’approccio delle sue modifiche rivelano un impegno autentico verso l’accuratezza, l’inclusività e la diffusione di contenuti storici spesso trascurati. È stato un pioniere nel promuovere la rappresentazione femminile su Wikipedia, contribuendo ad aumentare la percentuale di voci dedicate a donne, scienziate, artiste e figure storiche dimenticate. ๏ปฟ Una delle sue battaglie personali è proprio quella contro i vuoti sistemici nella conoscenza online: il rischio che alcuni argomenti, culture o persone vengano esclusi semplicemente perché meno documentati. Il suo lavoro è diventato quindi anche un atto di giustizia culturale. Un riconoscimento (quasi) inaspettato Nel 2017, Time Magazine lo ha inserito nella lista delle 25 persone più influenti su Internet, accanto a nomi come J.K. Rowling e Kim Kardashian. Un riconoscimento che ha sorpreso lo stesso Pruitt, abituato a lavorare lontano dai riflettori, con umiltà e discrezione. Nonostante il successo, continua a condurre una vita semplice, lavorando come impiegato presso la US Customs and Border Protection, e modificando Wikipedia durante il tempo libero. Per lui, contribuire all’enciclopedia è un modo per lasciare un’eredità di conoscenza e fare la differenza nel mondo, una modifica alla volta. Un esempio per tutti Steven Pruitt incarna ciò che c’è di più puro nello spirito di Internet: la collaborazione, la condivisione libera del sapere, e la volontà di costruire qualcosa di utile per gli altri. In un'epoca spesso dominata dall’apparenza e dall’autocelebrazione, la sua dedizione silenziosa ci ricorda che anche i gesti più discreti possono avere un impatto enorme. In fondo, ogni volta che consultiamo Wikipedia, c’è una buona probabilità che dietro una voce ci sia passato lui. E forse, senza nemmeno saperlo, gli dobbiamo molto più di quanto immaginiamo.
Autore: by Antonello Camilotto 23 aprile 2025
Margaret Heafield Hamilton (nata il 17 agosto 1936 a Paoli, Indiana) è una pioniera dell’informatica, celebre per aver diretto lo sviluppo del software di bordo delle missioni Apollo della NASA. La sua visione, il rigore scientifico e l’invenzione del concetto moderno di "ingegneria del software" hanno avuto un impatto cruciale sulla riuscita dello sbarco lunare del 1969. ๏ปฟ Gli Inizi: dal MIT alla NASA Hamilton si laurea in matematica al Earlham College nel 1958. In un periodo in cui pochissime donne lavoravano nella tecnologia, lei comincia a lavorare al MIT (Massachusetts Institute of Technology), inizialmente su progetti meteorologici per il Dipartimento della Difesa. Nel 1961 entra a far parte del Lincoln Laboratory del MIT, dove sviluppa software per rilevare aerei nemici nel contesto della Guerra Fredda. Ma il suo vero salto arriva quando viene coinvolta nel progetto Apollo: il MIT era stato incaricato di costruire il software per il computer di bordo dell'Apollo Guidance Computer (AGC), e Hamilton ne diventa la responsabile. Il Software che ha Salvato la Missione Apollo 11 Durante la missione Apollo 11, pochi minuti prima dell’allunaggio, il sistema di bordo cominciò a segnalare errori (famosi "errori 1202 e 1201"). In quel momento cruciale, il software progettato dal team di Hamilton si dimostrò all’altezza: il sistema era stato programmato per gestire le priorità, e scartò in automatico i compiti non essenziali per concentrarsi sull’allunaggio, permettendo a Neil Armstrong e Buzz Aldrin di completare la missione con successo. Questa decisione del software di non collassare ma di ricalibrarsi in tempo reale è oggi considerata uno dei primi esempi di sistemi resilienti e a tolleranza di errore. Hamilton aveva insistito sull’importanza di questi meccanismi, spesso in controtendenza rispetto alle priorità degli ingegneri hardware. Conio del Termine "Ingegneria del Software" Hamilton è anche accreditata per aver coniato l’espressione "software engineering", un termine oggi standard, ma che all’epoca veniva guardato con scetticismo. Il suo uso del termine voleva sottolineare l’importanza del software come disciplina ingegneristica a tutti gli effetti, dotata di rigore, metodologia e responsabilità critica, soprattutto in ambiti dove un errore poteva costare vite umane. Dopo l’Apollo: Hamilton Technologies Nel 1986 fonda Hamilton Technologies, Inc., un’azienda focalizzata sullo sviluppo di sistemi software altamente affidabili. Qui introduce il concetto di Universal Systems Language (USL) e la metodologia Development Before the Fact, mirata a prevenire errori prima ancora che possano essere introdotti nel codice. Riconoscimenti Margaret Hamilton ha ricevuto numerosi premi per il suo contributo alla scienza e alla tecnologia: Presidential Medal of Freedom nel 2016, conferita da Barack Obama Computer History Museum Fellow Award Citata in numerose opere e mostre sull’esplorazione spaziale Una delle immagini più celebri di Hamilton la ritrae accanto a una pila di libri: sono le stampe del codice del software Apollo, alte quanto lei. Un’immagine iconica che simboleggia quanto fosse fondamentale il software in quella che fu una delle imprese più straordinarie dell’umanità. Margaret Hamilton è oggi riconosciuta come una delle menti più brillanti nella storia della tecnologia. Ha aperto la strada a milioni di donne nella scienza e nella tecnologia, dimostrando con i fatti che il software è scienza, ed è anche arte, responsabilità e visione.
Autore: by Antonello Camilotto 23 aprile 2025
La navigazione in incognito, o "modalità privata", è una funzione disponibile in quasi tutti i browser moderni, da Google Chrome a Firefox, Safari e Microsoft Edge. Viene spesso percepita come uno scudo contro la sorveglianza digitale, ma è importante capire esattamente cosa fa e, soprattutto, cosa non fa questa modalità. A cosa serve la modalità in incognito? Non salva la cronologia Quando navighi in incognito, il browser non memorizza le pagine visitate nella cronologia. Questo è utile se stai cercando un regalo a sorpresa, facendo ricerche personali o usando un computer condiviso. Non salva cookie e dati di sessione I cookie (che ricordano preferenze e login) vengono eliminati al termine della sessione. Quindi, se accedi a un sito, chiudi la finestra e riapri, dovrai accedere di nuovo. Non memorizza moduli o ricerche Tutto ciò che scrivi nei campi di ricerca o nei form non verrà salvato nella memoria del browser. Permette login multipli Puoi accedere a più account dello stesso sito in parallelo (es. due Gmail aperti contemporaneamente: uno in incognito, uno in finestra normale). A cosa non serve la modalità in incognito? Non nasconde la tua attività al tuo provider internet o alla rete Wi-Fi Il tuo ISP (provider) può comunque vedere quali siti visiti, così come può farlo chi gestisce la rete (es. scuola, ufficio, hotel). Non ti rende anonimo su internet I siti che visiti possono comunque raccogliere informazioni su di te (come l’indirizzo IP) e monitorare la tua attività, soprattutto se effettui il login. Non blocca tracker, pubblicità o fingerprinting Anche se i cookie vengono cancellati, molti siti usano tecniche avanzate per tracciarti, come il browser fingerprinting (identificare il tuo dispositivo in base alle sue caratteristiche uniche). Non protegge da malware o phishing La modalità in incognito non offre nessuna protezione extra contro siti malevoli, virus, o attacchi informatici. Quindi ... è inutile? Assolutamente no. La navigazione in incognito è utile per mantenere una certa privacy locale, cioè sul dispositivo che stai usando. È una funzione comoda per: Evitare di salvare cronologia e ricerche Accedere temporaneamente ad account Navigare su computer pubblici o condivisi senza lasciare tracce Ma non è una modalità anonima. Se cerchi anonimato reale o protezione della privacy a livello di rete, dovresti usare strumenti più avanzati, come VPN, Tor o browser focalizzati sulla privacy (es. Brave, Firefox con estensioni mirate). Navigare in incognito è come scrivere con l'inchiostro simpatico: nessuno lo legge subito, ma lascia comunque tracce che altri strumenti possono vedere. Usala consapevolmente, ma non pensare che basti per diventare invisibile online.
Autore: by Antonello Camilotto 23 aprile 2025
Il 23 aprile 2005, un giovane di nome Jawed Karim — uno dei tre fondatori di YouTube — caricava un breve video di 18 secondi intitolato “Me at the zoo”. Nella clip, Karim si trova davanti all’area degli elefanti allo zoo di San Diego e, con tono casuale, osserva quanto siano “interessanti” gli animali, soprattutto per le loro “veramente, veramente, veramente lunghe proboscidi”. Quel momento, apparentemente banale, ha segnato l’inizio di una rivoluzione culturale e mediatica. Oggi, nel 2025, quel video compie 20 anni. ๏ปฟ Un gesto semplice, un impatto immenso All’epoca, YouTube era ancora un’idea in fase embrionale, concepita come piattaforma per condividere facilmente video online — un’operazione che, fino a quel momento, era complicata, lenta e limitata a pochi utenti esperti. Nessuno, nemmeno i suoi fondatori, avrebbe potuto prevedere quanto YouTube avrebbe trasformato la comunicazione globale, l’informazione, l’intrattenimento e perfino la politica. Con oltre 3 miliardi di utenti attivi al mese nel 2025, YouTube è oggi uno dei siti più visitati al mondo, disponibile in oltre 100 Paesi e tradotto in più di 80 lingue. Ma tutto è iniziato con quella clip tremolante di un ragazzo e degli elefanti. Dall’amatoriale al professionale In 20 anni, YouTube è passato dall’essere un rifugio per contenuti amatoriali a una piattaforma sofisticata che ospita produzioni di alta qualità, programmi originali, documentari, film, concerti, corsi universitari, podcast e dirette streaming. Ha lanciato la carriera di milioni di creatori di contenuti — gli “YouTuber” — diventati a loro volta veri e propri brand, con milioni di follower e contratti milionari. La piattaforma ha anche influenzato profondamente il giornalismo partecipativo, permettendo a chiunque di documentare eventi in tempo reale, dando voce a proteste, denunce e movimenti globali. Un’eredità culturale Il video “Me at the zoo” è oggi un pezzo da museo digitale. Non solo è ancora visibile sul canale originale di Jawed, ma è stato studiato da storici, sociologi e studiosi dei media come punto di partenza per l’evoluzione della cultura online. È diventato simbolo di un’era in cui chiunque può diventare creatore di contenuti, in cui la democratizzazione della comunicazione è diventata una realtà. Uno sguardo al futuro Mentre celebriamo questo anniversario, vale la pena chiedersi: quale sarà il prossimo passo per YouTube? Tra intelligenza artificiale, realtà aumentata, contenuti immersivi e nuove forme di monetizzazione, la piattaforma è destinata a evolversi ancora. Ma una cosa è certa: tutto è cominciato con un video di 18 secondi, un ragazzo con una felpa e degli elefanti. E per quanto il mondo cambi, “Me at the zoo” resterà per sempre il primo capitolo di una delle storie digitali più significative del nostro tempo.
Autore: by Antonello Camilotto 15 aprile 2025
Nel panorama in continua evoluzione della cybersecurity, una nuova e subdola minaccia si sta affacciando all’orizzonte: lo slopsquatting. Questo termine, ancora poco noto al grande pubblico, descrive una tecnica sempre più sfruttata dai cybercriminali per ingannare utenti e sistemi sfruttando un fenomeno molto specifico: le allucinazioni delle intelligenze artificiali. Cos’è lo Slopsquatting? Il termine “slopsquatting” nasce dalla fusione tra sloppy (trasandato, impreciso) e typosquatting (una tecnica nota per registrare domini simili a quelli legittimi ma con errori di battitura). Nel caso dello slopsquatting, però, il focus non è su errori degli utenti, ma su errori delle AI generative. Molti modelli linguistici, chatbot e assistenti AI — anche i più avanzati — possono “allucinare”, ovvero generare dati inesatti o del tutto inventati. Quando, ad esempio, un utente chiede a un’AI il sito ufficiale di un'azienda minore o un tool poco noto, può capitare che l’AI risponda con un URL inesistente ma plausibile. I cybercriminali hanno fiutato l’occasione: registrano preventivamente questi domini inventati, rendendoli operativi come trappole. Se l’utente clicca su uno di questi link sbagliati generati dall’AI, finisce su siti malevoli pronti a rubare dati, infettare con malware o mettere in atto truffe. Come funziona nella pratica Allucinazione dell’AI: Un modello linguistico, rispondendo a una richiesta, genera un nome di dominio errato ma credibile. Registrazione del dominio: I criminali monitorano le allucinazioni più comuni o testano sistemi AI per stimolarle, e registrano in massa i domini che ne derivano. Distribuzione: Quando gli utenti si fidano del risultato dell’AI e cliccano sul link, vengono indirizzati verso un sito truffaldino. Un esempio concreto potrebbe essere: - L’utente chiede: “Qual è il sito ufficiale di SoftLight PDF Tools?” (un software poco noto). - L’AI risponde con www.softlightpdf.com , ma il sito ufficiale in realtà è www.softlight-tools.org . - Il primo dominio, inventato, è stato però registrato da un cybercriminale che lo usa per distribuire malware. Perché è così insidioso? Lo slopsquatting è particolarmente pericoloso perché: Sfrutta la fiducia nell’AI: Gli utenti tendono a fidarsi ciecamente delle risposte fornite dalle intelligenze artificiali. È difficile da individuare: Non è un errore umano, ma una falla nell’affidabilità della generazione testuale. Si adatta velocemente: I criminali possono testare le AI in modo massivo, generando centinaia di nuovi target ogni giorno. Difendersi è possibile? Sì, ma servono consapevolezza e strumenti adatti. Alcuni suggerimenti: Verificare sempre le fonti: Prima di cliccare su un link, controllare se il dominio è quello ufficiale. Usare motori di ricerca per confermare. Protezione DNS e filtraggio web: Le aziende possono implementare sistemi che bloccano domini sospetti o appena registrati. Responsabilità dei provider AI: Le aziende che sviluppano modelli linguistici dovrebbero inserire meccanismi per segnalare link generati e verificare se esistono o se sono stati recentemente registrati. Lo slopsquatting rappresenta una nuova frontiera del cybercrime, dove la creatività dei criminali si fonde con le vulnerabilità emergenti delle tecnologie AI. È una minaccia insidiosa perché sfrutta non la debolezza dell’utente, ma quella dell’intelligenza artificiale stessa. In un mondo sempre più guidato dall’AI, è fondamentale restare vigili, informati e pronti ad adattarsi — perché anche le macchine possono sbagliare, e i criminali sanno esattamente come approfittarsene.
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