L'evoluzione del Web

by antonellocamilotto.com


La vita moderna pianta fortemente le sue radici su internet, influenza e determina il modo in cui ci comportiamo in maniera persistente. Ma il web non è sempre stato così.


L’evoluzione del Web


Negli ultimi 30 anni il Web si è evoluto in maniera vertiginosa, non solo da un punto di vista estetico, ma anche applicativo e concettuale. Storicamente viene diviso in 3 fasi:


  • Web 1.0: circa dal 1991 al 2004
  • Web 2.0: dal 2004 ad ora
  • Web 3.0: dal pochi anni ad ora


La transizione tra queste fasi ovviamente non è netta, non esiste una data sul calendario in cui si è passati dal Web 1.0 al Web 2.0.


Cosa è il Web 1.0?


Questa è la prima fase del Web (leggermente diverso dal concetto di internet, che esisteva da prima del Web 1.0, si pensi ad IRC). Gli utenti che partecipavano, che lo utilizzavano, erano puri spettatori. Non esisteva interazione, tutti i siti erano delle vetrine statiche e l’unica cosa che si poteva fare era leggere e riprodurre contenuti presenti in quella pagina. L’unica forma di interazione che si associa al Web 1.0 sono i primi forum, un concetto estremamente lontano dai social network a cui siamo abituati oggi.


Non si poteva essere creatori, ma solo spettatori. Il ruolo di creatore era riservato agli sviluppatori. Non esistevano metodi semplici per creare contenuti sul web (post su Instagram, pagine Facebook, ecc.).


Cosa è il Web 2.0?


Il Web 2.0, anche noto come Web2, è quello che la maggior parte di noi ha utilizzato per la prima volta, il nostro primo approccio ad internet. Il Web2 è considerato il Web Sociale, caratterizzato da una immensa possibilità di essere creatori di contenuti senza dover avere competenze di programmazione. Le applicazioni, come ogni social network, sono sviluppate per far si che chiunque possa partecipare alla modellazione e alla creazione di nuovi contenuti nel Web2. Ed è proprio questa semplicità che ha reso popolare il Web.


Monetizzazione nel Web 2.0


Cerchiamo di ricordare come sono nati i primi social network: Instagram, Facebook, Twitter o YouTube. I passaggi sono sempre gli stessi:


  • L’azienda lancia l’app
  • Si cerca di attrarre più persone possibili e stabilire una user-base
  • Si monetizza la user-base


La maggior parte delle compagnie come prima cosa cerca di rendere il servizio il più semplice possibile, niente pubblicità invasive e Ads di alcun genere. Il primo obiettivo è far iscrivere più persone possibile, diventare un cult. Una volta che il cult si è affermato, allora è arrivato il momento di monetizzare, di trarre profitti dall’investimento fatto.


Spesso per monetizzare e sopravvivere vengono introdotti investitori esterni. Ma chi investe in un progetto, poi pretende risultati da quella azienda, vuole un beneficio di tipo economico. E la storia spesso ci insegna che questo porta sempre a svantaggi da parte dell’utente, un peggioramento dell’esperienza generale.


Uno dei modi più comuni e proficui con cui monetizzare grandi progetti come quelli dei social network è la vendita dei dati personali. Per molte compagnie che vivono sul Web2, come Google e Facebook, avere più dati vuol dire più Ads personalizzati. Che portano a più click e più guadagni. Ed è questa la base fondamentale su cui si basa il Web2: la centralizzazione di enormi quantità di dati, divisi in data-center in mano alle Big Tech companies. La centralizzazione dei dati porta a problemi di sicurezza, principalmente caratterizzati dai così detti data-breaches.


Il Web3 nasce con lo scopo ben preciso di risolvere questi problemi, ridisegnando i fondamentali dell’architettura di internet e su come gli utenti interagiscono con le applicazioni.


Cosa è il Web 3.0


La differenze tra il Web2 e il Web3 sono tante, ma il concetto alla base è uno solo: decentralizzazione.

Questa parola riecheggia da qualche anno su internet ogni volta che si parla di blockchain e crypto valute. Ma come la si applica a questa nuova idea di Web?


Il Web 3.0 migliora il concetto di internet così come lo conosciamo oggi aggiungendo delle caratteristiche chiave. Il Web3 deve avere soddisfare questi parametri:


  • Verificabilità
  • Assenza di doversi fidare di intermediari (trustless)
  • Self-Governing
  • Permissionless
  • Distribuito e robusto
  • Pagamenti nativi


Andiamo a vedere questi paroloni cosa vogliono dire. La grossa differenza lato sviluppo è che un developer non creerà più applicazioni che vengono eseguite su un singolo server che salva i dati in un singolo database (che di norma a sua volta è hostato e gestito da un singolo cloud provider).


Adesso le applicazioni Web 3.0 verranno eseguite su blockchain, network decentralizzati con svariati nodi (server) peer-to-peer. O in generale, una combinazione del vecchio metodo con questo più moderno. Spesso queste applicazioni vengono chiamate Dapps, ovvero decentralized applications.


Quando sentiamo parlare di Web3, il discorso è sempre accompagnato dalle crypto valute. Queste giocano un ruolo fondamentale all’interno di questi protocolli. Garantiscono un incentivo economico (token) per chiunque voglia partecipare nel creare, governare, contribuire o migliorare uno di questi progetti.


Questi protocolli di norma offrono una svariata scelta di servizi che fino ad ora, erano garantiti solo dai grandi cloud provider: computing, storage, banda, identità, hosting etc. Nel Web3 la storia cambia radicalmente: i soldi (o meglio, la currency) spesi per determinati servizi non vanno ad un singolo ente centralizzato, ma vengono distribuiti direttamente a tutti i validatori del network sotto forma di gas-fees. Anche protocolli su blockchain native come Ethereum operano in questa maniera.


Pagamenti nativi


I Token di cui abbiamo appena parlato introducono anche il layer dei pagamenti nativi. Un sistema senza frontiere di stati o intermediari di terze parti.


Fino ad ora, aziende centralizzate come Stripe e PayPal hanno fatto miliardi di dollari gestendo i pagamenti online. Questi metodi però non hanno la libertà e la interoperabilità che si riesce a raggiungere tramite blockchain. Inoltre questi servizi richiedono necessariamente l’inserimento dei nostri dati personali per poter eseguire operazioni.


All’interno di applicazioni Web3, delle Dapps, è possibile integrare un Crypto Wallet. Il più famoso è per esempio MetaMask (nulla a che vedere con Meta, ex Facebook).


Per quanto riguarda l’utilizzabilità e la semplicità dei pagamenti all’interno delle blockchain, è un discorso molto più complesso che non tratteremo in questo articolo. Il concetto che ci interessa è questo: a differenza dell’attuale sistema finanziario moderno, gli utenti all’interno del Web3 non devono passare attraverso svariati sistemi intricati di identificazione per usufruire un servizio finanziario. Tutto quello che serve è avere un Wallet che supporta il network con il quale vogliamo interagire e possiamo inviare e ricevere pagamenti, senza bisogno dell’approvazione di una banca o di una compagnia esterna.


Una nuova idea di costruire aziende


Con l’introduzione dei Token, nasce il concetto di tokenizzazione e realizzazione della token economy.


Cerchiamo di capire con un esempio semplice come funziona. Supponiamo di voler creare un’azienda, per poter mettere in atto questa idea che abbiamo avuto abbiamo bisogno di soldi per pagare sviluppatori e tutto ciò di cui avremo bisogno.


Allo stato della finanza attuale, di norma si assume un venture capital e si da via una percentuale di azienda. Questo tipo di investimento introduce immediatamente inevitabilmente degli incentivi spesso mal posti che sul lungo periodo andranno ad intaccare l’esperienza utente. Ma supponiamo che questo progetto comunque vada bene, spesso ci vogliono anni prima di avere un ritorno economico effettivo.

Nel Web3 la storia è diversa. Immaginiamo che qualcuno proponga un progetto basato su un’idea che noi ed altre persone condividiamo e supportiamo. Nel Web3 tutti possono partecipare al progetto dal day-one. La compagnia annuncerà il rilascio di un determinato numero di Token, e darà ad esempio il 10% ad i primi sviluppatori, il 10% in vendita la pubblico, ed il resto da parte per futuri pagamenti.


I detentori del Token, così detti StakeHolders, potranno utilizzare i loro Token per votare cambiamenti o decisioni riguardo il futuro del progetto in cui hanno creduto ed investito dal primo giorno. Gli sviluppatori che hanno contribuito invece, potranno vendere i loro Token una volta rilasciati in modo da ricevere un pagamento per il loro lavoro.


Il tutto è estremamente libero: se supportiamo il progetto, compriamo token e non li vendiamo, il così detto Holding. Se ad un certo punto non ci troviamo più in linea con il percorso che sta prendendo questo progetto, possiamo vendere i nostri token in qualsiasi momento.

Un esempio pratico di applicazione del concetto: un’alternativa non centralizzata a Github.


La differenza rispetto al precedente stato del Web è ormai chiara: quello che succede su internet è in mano agli investitori, non a pochissime grandi aziende come Google e Facebook. È un mondo decentralizzato, i Token Holders sono coloro che controllano il futuro dell’asset e per questo vengono ricompensati: tramite mining nel caso di una Proof of Work, detenendo token nel caso di Proof of Stake (o altre forme ibride).


Identità nel Web 3.0


Nel Web3 il concetto di identità vira in una direzione totalmente diversa da quella a cui siamo abituati oggi: non esistono combinazioni di email + password, preceduti da lunghi processi di verifica dell’identità.


Nella maggior parte delle Dapps la nostra identità è strettamente legata all’indirizzo del nostro wallet che stiamo utilizzando per interagire con il network. Nel caso di una Dapps sviluppata su Ethereum, come ad esempio UniSwap, l’identità sarà il nostro Ethereum Adress.

A differenza dei tradizionali sistemi utilizzati nel Web2, l’identità nel Web3 diventa totalmente anonima, o meglio: pseudonima. A meno che ovviamente non sia l’utente stesso a decidere altrimenti.


L’Ethereum Foundation ha sviluppato un RFP (request for proposal), uno strumento che ci permette di registraci tramite Ethereum.


Smart Contract: lo strumento alla base del Web 3.0


Uno “smart contract” è un semplice pezzo di codice che viene eseguito nella blockchain, ad esempio su Ethereum. Questi “contratti” garantiscono di eseguire un determinata azione e di produrre lo stesso risultato per chiunque lo utilizzi. Li abbiamo visti utilizzati in una moltitudine di Dapps: possono essere integrati in giochi, NFF, sistemi di votazione online e prodotti di tipo finanziario di svariato genere.


Capiamo con un esempio pratico cosa è uno smart contract.


Immaginiamo una classica macchinetta che vende merendine, il più semplice esempio che possiamo pensare. Quella macchina è un sistema hardware, che esegue un determinato programma, un software con delle indicazioni ben precise. Quando inseriamo la giusta quantità di monetine al suo interno ed inseriamo il numero del prodotto, la macchinetta ci restituirà il prodotto scelto.


Allo stesso modo in una blockchain, questi “contratti” posso trattenere del valore, ad esempio sotto forma di Token, che rilasceranno solo se delle precise condizioni decise in precedenza verranno innescate.


Questo concetto esiste da tempo, con l’introduzione delle blockchain e del Web 3.0, siamo riusciti a renderlo trustless. Immaginiamo di fare un scommessa tra amici, il primo a raggiungere 100 punti ad un gioco, vince una determinata quantità di denaro (currency). Ma come facciamo a fidarci che se vinciamo, il nostro amico ci darà davvero i soldi che ci spettano? Fino ad ora per ovviare a questo problema della fiducia, ci si affidava ad un terzo, nel nostro caso un terzo amico. Ma siamo davvero sicuri che questo amico non sia contro di noi, magari è corrotto. Con il Web 3.0 questo problema scompare: una volta deciso il palio di vincita e le condizioni, entrambi i partecipanti depositano nello smart contract la quantità scommessa. Questo bloccherà il denaro e solo una volta che il primo dei due amici raggiungerà 100 punti, lo smart contract darà il palio totale al vincitore.


Conclusioni finali


Con il Web 3.0, ogni persona, macchina o azienda sarà capace di scambiare valore, informazioni e lavoro con chiunque nel mondo, senza bisogno di avere un contatto di fiducia diretto o un intermediario di terze parti.


La più importante evoluzione nel Web 3.0 è la minimizzazione della fiducia necessaria per coordinare operazioni a livello globale.

Il Web3 espanderà in maniera fondamentale la scala e lo scopo delle interazioni tra persone e tra macchine, molto oltre quello che riusciamo ad immaginare oggi. Questo passaggio attiverà una nuova onda di business model fino ad ora inimmaginabili.


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Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
Collegamenti sempre più invisibili, contenuti sempre più chiusi: un futuro della rete che mette in discussione l’idea stessa di navigazione. Nel silenzio, mentre scorriamo un feed o leggiamo un articolo incorporato in una piattaforma, un cambiamento profondo sta avvenendo sotto i nostri occhi: i link, cuore pulsante dell’architettura originaria del web, stanno scomparendo. Non del tutto, certo. Ma il loro ruolo si sta riducendo a tal punto da farci domandare: come sarebbe Internet se i link non esistessero più? La domanda può sembrare provocatoria, ma descrive una tendenza concreta. Oggi, gran parte del consumo di contenuti digitali avviene all’interno di ambienti chiusi: social network, app mobili, piattaforme editoriali che limitano o scoraggiano l’uso dei collegamenti ipertestuali. Gli algoritmi favoriscono contenuti auto-contenuti, mentre i link esterni vengono penalizzati, nascosti, ridotti a dettagli invisibili o addirittura rimossi. Eppure, l’idea stessa di “navigazione” – non a caso il verbo simbolo di Internet – si fonda proprio sulla possibilità di passare da un contenuto all’altro. Il link è, o almeno era, la bussola del web: ci guida tra informazioni, ci permette di verificare, approfondire, esplorare. Toglierlo significa cambiare radicalmente il rapporto tra utente e contenuto. Il tramonto del web aperto Il web è nato come spazio libero e interconnesso. I link, fin dalle prime versioni dell’HTML, erano la struttura portante di questa architettura. Ogni pagina era un nodo, ogni collegamento un ponte. Ma oggi questa rete si sta restringendo. I grandi attori digitali preferiscono contenuti che “non facciano uscire l’utente”: meno link, più permanenza sulla piattaforma. Il risultato è un ecosistema più controllato, meno trasparente. Se i link vengono oscurati o resi irrilevanti, l’utente perde la capacità di orientarsi, di risalire alle fonti, di ricostruire un contesto. I contenuti si isolano, si consumano come bolle di testo in una sequenza algoritmica, e la navigazione cede il passo allo scroll. Un’informazione meno verificabile Questo scenario ha implicazioni non solo tecniche, ma anche culturali e democratiche. Senza link, l’informazione perde profondità. È più difficile distinguere il fatto dall’opinione, la fonte attendibile da quella manipolata. La verifica, che richiede un percorso tra documenti e riferimenti, diventa impraticabile. In un web disancorato, la conoscenza si appiattisce e diventa più facile da manipolare. La sfida: riattivare la connessione Non tutto, però, è già deciso. Esistono ancora spazi – dai blog ai progetti open source, dai portali enciclopedici alle riviste online – dove i link mantengono il loro valore. È lì che si gioca la partita per un web più aperto, accessibile e responsabile. Ma serve una presa di coscienza collettiva. Gli editori digitali devono tornare a credere nella struttura reticolare del sapere. I progettisti di interfacce devono valorizzare i collegamenti, non nasconderli. Gli utenti stessi possono fare la differenza, scegliendo piattaforme e formati che rispettano la logica della connessione e della trasparenza. Internet è nato come rete, e una rete senza nodi è solo un ammasso di fili scollegati. Immaginare un web senza link significa accettare un mondo più chiuso, più controllato, e meno libero. La buona notizia è che il link – piccolo, blu, sottolineato – è ancora con noi. Ma per quanto ancora?
Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
Charles Babbage è universalmente riconosciuto come uno dei padri fondatori dell’informatica moderna. Nato a Londra il 26 dicembre 1791, Babbage fu un matematico, filosofo, inventore e ingegnere meccanico, noto soprattutto per la sua visione rivoluzionaria: la creazione di una macchina calcolatrice automatica. In un’epoca dominata dal lavoro manuale e dalla scarsa affidabilità dei calcoli umani, la sua idea fu un punto di svolta epocale. L’idea della macchina differenziale Babbage sviluppò per la prima volta l’idea della Macchina Differenziale nei primi anni del XIX secolo. Questa macchina era progettata per automatizzare il calcolo di funzioni matematiche complesse, in particolare i polinomi, con l'obiettivo di generare tabelle matematiche prive di errori. A quel tempo, gli errori di stampa e di calcolo nelle tavole logaritmiche e trigonometriche causavano gravi problemi in ambito ingegneristico e nautico. Nel 1822, presentò un modello funzionante della macchina alla Royal Astronomical Society, guadagnandosi il supporto del governo britannico. Tuttavia, difficoltà tecniche e finanziarie portarono all’abbandono del progetto. La Macchina Analitica: un’idea oltre il suo tempo Nonostante gli insuccessi iniziali, Babbage non abbandonò la sua visione. Negli anni successivi progettò un dispositivo ancora più ambizioso: la Macchina Analitica. Questo nuovo progetto andava ben oltre la semplice automazione del calcolo. Era, in sostanza, un vero e proprio prototipo di computer: programmabile, dotato di memoria (il “magazzino”) e di un’unità di calcolo (il “mulino”), capace di eseguire istruzioni condizionali e cicli. La Macchina Analitica non fu mai costruita durante la vita di Babbage, ma il concetto alla base della sua progettazione era straordinariamente simile a quello dei moderni computer. Un altro aspetto fondamentale dell’eredità di Babbage è la collaborazione con Ada Lovelace, figlia del poeta Lord Byron. Ada comprese appieno il potenziale della Macchina Analitica e scrisse una serie di note esplicative, includendo quello che è considerato il primo algoritmo destinato ad essere eseguito da una macchina. Per questo motivo, è spesso considerata la prima programmatrice della storia. L’eredità di Charles Babbage Sebbene nessuna delle sue macchine sia stata completata durante la sua vita, Charles Babbage ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’informatica. I suoi progetti teorici furono riscoperti e studiati nel XX secolo, dimostrando che, se avesse avuto accesso alla tecnologia adeguata, avrebbe potuto costruire un computer funzionante più di un secolo prima della nascita dell’elettronica digitale. Nel 1991, per celebrare il bicentenario della sua nascita, il Science Museum di Londra costruì una versione funzionante della Macchina Differenziale, basandosi sui disegni originali. Il risultato confermò la validità delle idee di Babbage: la macchina funzionava perfettamente. Charles Babbage è un esempio straordinario di come la visione scientifica possa superare i limiti del proprio tempo. Le sue invenzioni non solo anticiparono i concetti fondamentali del computer moderno, ma aprirono la strada a un intero nuovo campo di conoscenza. La sua figura è un monito a non sottovalutare la forza dell’immaginazione e della perseveranza nella ricerca scientifica.
Autore: by Antonello Camilotto 29 luglio 2025
I social media sono diventati uno degli ambienti più influenti nella formazione dell’identità personale, delle opinioni e delle relazioni. Tuttavia, dietro la loro apparente funzione di condivisione e connessione, si nasconde una dinamica psicologica complessa e potente: la dissonanza cognitiva. Cos’è la dissonanza cognitiva? La dissonanza cognitiva è un concetto introdotto dallo psicologo Leon Festinger nel 1957 e si riferisce al disagio psicologico che proviamo quando le nostre convinzioni, atteggiamenti o comportamenti sono in conflitto tra loro. Per esempio, se una persona si considera ambientalista ma prende spesso l’aereo, potrebbe provare una tensione interna tra ciò che pensa e ciò che fa. Per ridurre questo disagio, cercherà di modificare le proprie credenze, giustificare il comportamento o cambiarlo. Social media: il terreno perfetto per la dissonanza I social media amplificano le situazioni in cui può emergere la dissonanza cognitiva. Questo accade per diversi motivi: Esposizione continua a opinioni divergenti: sui social siamo costantemente bombardati da opinioni, valori e stili di vita diversi dai nostri. Se leggiamo un post che contrasta con le nostre convinzioni più radicate, possiamo provare una sensazione di fastidio o disagio. Costruzione dell’identità digitale: la necessità di apparire coerenti e approvati dagli altri spinge molte persone a pubblicare contenuti che riflettono un'immagine ideale di sé, spesso lontana dalla realtà. Questa discrepanza può generare un conflitto interiore tra il “sé reale” e il “sé digitale”. Ricerca di approvazione (like, commenti, condivisioni): il bisogno di conferma sociale può portare a comportamenti incoerenti. Ad esempio, si può sostenere pubblicamente una causa per ricevere approvazione, pur non condividendola pienamente nella vita privata. Confronto sociale costante: vedere persone simili a noi avere successo, apparire felici o coerenti con i propri valori può indurre una crisi interna, soprattutto se sentiamo di non essere all’altezza o di vivere una realtà contraddittoria. Le strategie per ridurre la dissonanza online Quando ci troviamo in dissonanza a causa dei social, tendiamo a mettere in atto alcune strategie inconsapevoli per ritrovare un senso di coerenza: Razionalizzazione: "Lo faccio solo per divertimento, non significa che ci creda davvero." Negazione o minimizzazione: "Sui social tutti fingono, non è importante." Cambiamento di opinione: adattare le proprie idee a quelle più condivise nel proprio gruppo di riferimento (spesso chiamato echo chamber). Attacco alla fonte del disagio: criticare chi esprime opinioni diverse o bloccare chi mette in discussione le nostre convinzioni. Implicazioni psicologiche e sociali La continua esposizione alla dissonanza cognitiva sui social può avere effetti significativi: Affaticamento mentale: mantenere due idee opposte nella mente richiede energia e può portare a stress, ansia o burnout. Polarizzazione: per ridurre la dissonanza, ci si rifugia in bolle di opinioni simili, limitando il confronto e aumentando l’intolleranza verso chi la pensa diversamente. Crescita personale: se gestita in modo consapevole, la dissonanza può essere un motore di evoluzione interiore, spingendoci a riflettere, mettere in discussione le nostre certezze e crescere. I social media non sono solo strumenti di comunicazione, ma spazi in cui si gioca costantemente una battaglia tra autenticità e immagine, tra coerenza e contraddizione. Comprendere il meccanismo della dissonanza cognitiva ci permette di usare i social in modo più consapevole, critico e meno reattivo. La sfida non è eliminare la dissonanza, ma imparare ad ascoltarla e integrarla nel nostro percorso di crescita personale.
Autore: by Antonello Camilotto 26 luglio 2025
Quando il Blu-ray fece il suo debutto nel 2006, fu salutato come il futuro dell’home entertainment. Una tecnologia capace di offrire una qualità video e audio impensabile con il DVD, supportata da giganti dell’elettronica e dello spettacolo. Eppure, meno di due decenni dopo, il suo nome è ormai relegato a scaffali polverosi e nostalgici collezionisti. Una parabola netta e sorprendente, fatta di trionfi iniziali e di un declino tanto rapido quanto inevitabile. L’ascesa: la vittoria nella guerra dei formati All’inizio degli anni 2000, con la diffusione dell’alta definizione, nacque l’esigenza di un nuovo supporto fisico capace di contenere grandi quantità di dati. Due formati si contesero il trono: HD DVD, sostenuto da Toshiba e Microsoft, e Blu-ray, promosso da Sony, Panasonic e altri colossi. La cosiddetta "guerra dei formati" fu combattuta su più fronti: qualità tecnica, costi di produzione, supporto da parte delle major cinematografiche. Il colpo decisivo arrivò nel 2008, quando Warner Bros. annunciò il proprio abbandono dell’HD DVD in favore del Blu-ray. Quella scelta sancì la fine del rivale. Toshiba si ritirò poco dopo, e il Blu-ray sembrava destinato a un lungo regno. Il picco: la promessa mantenuta (per poco) I primi anni post-vittoria furono positivi. Il Blu-ray offriva una qualità d'immagine e suono superiore, contenuti extra più ricchi e una protezione contro la pirateria più avanzata. L’arrivo della PlayStation 3, che includeva un lettore Blu-ray, contribuì a una maggiore diffusione del formato. Ma dietro il successo si nascondevano già le ombre: il supporto fisico stava perdendo terreno. Le connessioni internet diventavano più veloci, i servizi di streaming iniziavano a farsi strada, e la comodità dell’on demand cominciava a far vacillare la centralità del disco. Il declino: vittima della sua epoca Nonostante l’arrivo di varianti come il Blu-ray 3D e l’Ultra HD Blu-ray (4K), il formato non riuscì a imporsi come standard di massa. Il prezzo elevato dei lettori, la concorrenza interna tra versioni diverse e la rapidissima evoluzione dello streaming contribuirono al suo lento abbandono. Servizi come Netflix, Amazon Prime Video e Disney+ hanno reso l’accesso ai contenuti semplicissimo e immediato, anche in alta definizione o 4K. Inoltre, molte persone hanno semplicemente smesso di acquistare film in formato fisico, preferendo il digitale. Un’eredità ambigua Oggi, il Blu-ray sopravvive in nicchie: cinefili appassionati, collezionisti, utenti che vogliono la massima qualità senza compressione. Ma il grande pubblico lo ha abbandonato. Eppure, il Blu-ray ha lasciato il segno: ha segnato una tappa importante nell’evoluzione dell’home video e rappresenta forse l’ultimo grande standard fisico prima del passaggio definitivo al digitale. La storia del Blu-ray è una lezione sulla velocità del cambiamento tecnologico. Una vittoria epocale contro un rivale potente, seguita da un fallimento commerciale segnato dai tempi che cambiano. Nonostante tutto, il Blu-ray rimane un simbolo: di innovazione, di ambizione e, in un certo senso, di nostalgia per un’epoca in cui possedere un film voleva dire toccarlo con mano. ๏ปฟ
Autore: by antonellocamilotto.com 26 luglio 2025
Telegram è una delle app di messaggistica più popolari al mondo, apprezzata per le sue funzioni avanzate, la velocità e, soprattutto, l’attenzione alla privacy. Tuttavia, una domanda sorge spontanea per molti utenti: perché non tutte le chat su Telegram sono "segrete"? La risposta si trova nella struttura stessa dell'app e nel modo in cui bilancia sicurezza, funzionalità e usabilità. Chat cloud e chat segrete: la differenza fondamentale Telegram offre due tipi principali di chat: Chat cloud (standard) Chat segrete Le chat cloud sono quelle predefinite: ogni volta che avvii una nuova conversazione normale, stai usando una chat cloud. Queste chat: Sono archiviate sui server di Telegram in forma crittografata. Permettono l’accesso da più dispositivi contemporaneamente. Supportano la sincronizzazione automatica e il backup. Offrono funzioni come messaggi fissati, bot, invio di file pesanti, modifiche e cancellazioni retroattive. Le chat segrete, invece: Usano la crittografia end-to-end: solo il mittente e il destinatario possono leggere i messaggi. Non sono salvate sul cloud di Telegram. Non possono essere inoltrate. Non sono accessibili da più dispositivi. Offrono l’autodistruzione dei messaggi e notifiche di screenshot. Perché Telegram non rende tutte le chat “segrete” di default? Sebbene la crittografia end-to-end sia più sicura, Telegram ha scelto di non applicarla a tutte le chat per diversi motivi: Multi-dispositivo e sincronizzazione Le chat cloud permettono l’uso dell’app da computer, tablet e smartphone contemporaneamente. Le chat segrete, essendo legate a uno specifico dispositivo, non possono essere sincronizzate su più device. 2. Prestazioni e usabilità La crittografia end-to-end su vasta scala rende più difficile implementare funzionalità complesse e rapide. Telegram punta molto sulla praticità d’uso, anche a scapito della crittografia “totale”. 3. Scelta consapevole Telegram lascia decidere all’utente se attivare o meno la modalità segreta, dando pieno controllo su come proteggere le proprie conversazioni. Telegram è sicuro anche senza chat segrete? Sì, ma con alcune precisazioni: Le chat cloud sono crittografate lato server, quindi Telegram conserva i messaggi in forma cifrata. Tuttavia, la chiave di cifratura è nelle mani dell’azienda, che potrebbe teoricamente accedervi (anche se dichiara di non farlo). Le chat segrete, invece, sono completamente private: neanche Telegram può leggerle. Quando usare le chat segrete? Le chat segrete sono ideali quando: Si condividono informazioni sensibili. Si desidera una comunicazione strettamente privata. Non si vogliono lasciare tracce sui server o avere sincronizzazione. Telegram offre un compromesso tra funzionalità avanzate e sicurezza, lasciando agli utenti la libertà di scegliere quanto proteggere le proprie conversazioni. Non tutte le chat sono segrete perché, semplicemente, non sempre è necessario. Ma quando lo è, Telegram mette a disposizione strumenti potenti per garantire la massima riservatezza. Se cerchi un equilibrio tra comodità e privacy, Telegram te lo offre. Ma se desideri massima sicurezza, ricordati: attiva una chat segreta.
Autore: by Antonello Camilotto 26 luglio 2025
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale in ogni ambito della nostra vita – dal lavoro alla casa, dai trasporti alla sanità – l’infrastruttura che rende possibile questa rivoluzione deve evolvere di pari passo. In questo contesto si inserisce il nuovo standard Wi-Fi 8, destinato a diventare la colonna portante della connettività nell’era AI. Un salto generazionale Approvato in fase preliminare dalla IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers) e in fase di definizione finale, il Wi-Fi 8 promette una svolta rispetto al suo predecessore, il Wi-Fi 7. Mentre quest’ultimo ha introdotto la modulazione 4K-QAM e una latenza ridottissima per applicazioni in tempo reale, Wi-Fi 8 va oltre: nasce per supportare l’interconnessione massiva di dispositivi intelligenti, con una particolare attenzione a edge computing, automazione, e gestione dinamica del traffico dati. Intelligenza distribuita e reti dinamiche Ciò che distingue Wi-Fi 8 non è solo la velocità – che potrebbe superare teoricamente i 50 Gbps – ma la capacità di adattarsi in tempo reale alle esigenze della rete. Grazie all’introduzione di algoritmi di gestione AI-native e una maggiore integrazione con il 6G, Wi-Fi 8 sarà in grado di allocare risorse in modo predittivo, anticipando congestioni e ottimizzando la latenza. Questo è cruciale in scenari come fabbriche autonome, ospedali con robot chirurgici connessi o smart city in cui ogni lampione, semaforo o veicolo comunica costantemente con la rete. In ambienti domestici, invece, Wi-Fi 8 promette streaming 8K senza interruzioni, gaming cloud con latenza impercettibile e una gestione intelligente dei dispositivi IoT. Una rete che apprende Uno degli elementi più innovativi dello standard è la capacità delle reti Wi-Fi 8 di apprendere dal comportamento degli utenti e dei dispositivi. Saranno in grado, ad esempio, di riconoscere pattern di utilizzo e modificare automaticamente la priorità del traffico: se un visore AR inizia una sessione di realtà aumentata, la rete potrà assegnargli la banda necessaria istantaneamente, senza compromettere gli altri servizi. Sicurezza e privacy: sfide cruciali Tuttavia, con la crescita dell’intelligenza e dell’automazione, aumentano anche le vulnerabilità. Il Wi-Fi 8 prevede un rafforzamento delle misure di sicurezza, con autenticazione multipla avanzata, cifratura post-quantistica e sistemi di rilevamento automatico delle minacce, anche questi basati su AI. Quando arriverà? Secondo gli esperti del settore, i primi dispositivi compatibili con Wi-Fi 8 potrebbero vedere la luce tra il 2026 e il 2027, con una diffusione di massa prevista entro il decennio. Aziende come Qualcomm, Intel, e Huawei stanno già lavorando su chip di nuova generazione che supporteranno il nuovo standard. Wi-Fi 8 non è solo una nuova sigla tecnica: rappresenta un cambio di paradigma. In un mondo dove l’intelligenza artificiale è ovunque, anche la rete deve diventare intelligente. Con Wi-Fi 8, la connettività entra in una nuova era: flessibile, predittiva, e – soprattutto – pensata per dialogare con le macchine che stanno cambiando la nostra società.
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