Chi ha dato vita a ChatGPT?

by Antonello Camilotto

ChatGPT è stato creato da OpenAI, una delle principali organizzazioni di ricerca e sviluppo nel campo dell'intelligenza artificiale. Fondata nel 2015, OpenAI ha come missione la creazione di un'intelligenza artificiale generale (AGI) che possa contribuire positivamente al progresso umano. Fin dagli inizi, l’obiettivo è stato rendere l'intelligenza artificiale sicura, utile e accessibile, mantenendo un focus sulla trasparenza e sulla condivisione della ricerca.


OpenAI è nata come un'organizzazione senza scopo di lucro grazie all'impegno di diverse figure di spicco della tecnologia, tra cui Elon Musk, Sam Altman, Greg Brockman, Ilya Sutskever, Wojciech Zaremba e John Schulman. Musk, pur essendo uno dei co-fondatori, ha lasciato OpenAI nel 2018 per evitare potenziali conflitti di interesse, considerando il suo coinvolgimento in Tesla e nelle sue iniziative legate all'AI. Sam Altman, un ex presidente di Y Combinator, ha assunto un ruolo di leadership in OpenAI, diventandone CEO e guidandone lo sviluppo fino al suo attuale successo.


La tecnologia alla base di ChatGPT si basa sul modello di intelligenza artificiale GPT, acronimo di Generative Pre-trained Transformer. Questo modello è nato dal lavoro di un team di ricercatori e ingegneri di OpenAI, che si sono basati su recenti progressi nel campo del deep learning e dell'apprendimento non supervisionato per addestrare reti neurali su grandi quantità di dati testuali. Il principio fondamentale del modello GPT è quello di apprendere dai dati linguistici attraverso l'analisi di testi, senza una supervisione diretta, e di rispondere a una varietà di input fornendo risposte coerenti e contestualmente rilevanti.


Il primo modello GPT è stato pubblicato nel 2018 e da allora OpenAI ha continuato a migliorare e perfezionare la tecnologia con il rilascio di GPT-2 nel 2019 e di GPT-3 nel 2020, quest'ultimo con miliardi di parametri. ChatGPT, una versione specifica del modello, è stata addestrata in modo da potersi interfacciare con gli utenti attraverso conversazioni simulate. Questo aspetto rende ChatGPT particolarmente utile per molteplici applicazioni, dal servizio clienti all'assistenza educativa e alla generazione di contenuti.


L'approccio di OpenAI alla creazione di ChatGPT è stato pionieristico. Hanno implementato tecniche avanzate come il trasferimento dell'apprendimento e il reinforcement learning (apprendimento per rinforzo) per garantire che le risposte del modello siano precise e pertinenti. L’apprendimento rinforzato attraverso il feedback umano, in particolare, ha rappresentato un salto di qualità nella formazione di modelli di linguaggio sempre più sofisticati. Questo approccio prevede l’utilizzo di annotatori umani che valutano e danno feedback sulle risposte generate, aiutando il sistema a migliorare progressivamente.


OpenAI ha anche collaborato con diverse altre aziende, tra cui Microsoft, per potenziare le capacità computazionali necessarie per l’addestramento dei modelli GPT. Microsoft ha infatti fornito l'accesso alle sue risorse cloud su Azure, rendendo possibile l'addestramento su larga scala dei modelli e aprendo la strada a ulteriori evoluzioni di ChatGPT.


Con il passare degli anni, OpenAI ha scelto di rendere sempre più accessibile e versatile ChatGPT. Ad oggi, il modello viene utilizzato in numerose applicazioni, dalle app per la produttività ai giochi, dal customer service all’assistenza alla scrittura.


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Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Nonostante l’uso diffuso di SPID e CIE per accedere ai servizi pubblici, il voto online resta un miraggio: tra timori di sicurezza, vincoli legali e resistenze politiche, la democrazia digitale in Italia è ancora ferma al palo. Nel 2025, in un’epoca in cui si può aprire un conto corrente, firmare contratti e accedere a servizi pubblici tramite SPID o Carta d’Identità Elettronica (CIE), resta una domanda cruciale e apparentemente paradossale: perché non possiamo ancora votare online? Nonostante le promesse della digitalizzazione, il voto elettronico in Italia è ancora un tabù, e non certo per mancanza di strumenti. SPID e CIE rappresentano due delle principali identità digitali utilizzate dai cittadini per accedere in sicurezza a una vasta gamma di servizi. Ma quando si tratta di scegliere un governo, tutto si ferma. Le potenzialità ci sono SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) e CIE sono sistemi di autenticazione sicuri, conformi agli standard europei e ampiamente utilizzati. Consentono già oggi operazioni sensibili, come accedere all’Agenzia delle Entrate, all’INPS o alla propria cartella sanitaria. Eppure, l’introduzione del voto online non è mai arrivata al banco di prova. ๏ปฟ Altri Paesi, come l’Estonia, hanno dimostrato che il voto elettronico è possibile: lì si vota online dal 2005 con un sistema sicuro e monitorato, che ha migliorato la partecipazione e abbattuto i costi. Ma l’Italia sembra frenata da un mix di timori tecnici, politici e culturali. I principali ostacoli Sicurezza e anonimato – Il principale ostacolo è garantire, contemporaneamente, l’identificazione certa dell’elettore e l’anonimato del voto. SPID e CIE servono proprio a identificare chi accede, ma il voto, per legge, deve essere segreto. Creare un sistema che separi in modo assoluto l’identità del votante dal contenuto del voto è un’impresa tecnica e giuridica tutt’altro che semplice. Rischi informatici – Il timore di attacchi hacker, manipolazioni del voto o malfunzionamenti dei server è reale. Un errore tecnico o una falla di sicurezza in un sistema di voto online potrebbe minare la fiducia dell’intero processo democratico. Divario digitale – Introdurre il voto online significherebbe escludere, almeno inizialmente, una parte della popolazione meno alfabetizzata digitalmente o priva di accesso stabile a internet. Questo potrebbe creare nuove disuguaglianze nella partecipazione elettorale. Mancanza di volontà politica – Infine, esiste un certo conservatorismo istituzionale: molti partiti e funzionari temono che cambiare le modalità di voto possa generare incertezze o alterare gli equilibri consolidati. E in un Paese in cui l’astensionismo cresce, un sistema più accessibile potrebbe ribaltare certi scenari. Le sperimentazioni (fallite o rimandate) Nel corso degli anni, si sono registrati diversi tentativi di sperimentazione. Nel 2020, in piena pandemia, si è parlato di estendere il voto online almeno ai cittadini italiani all’estero. Tuttavia, le sperimentazioni sono rimaste sulla carta, frenate da dubbi tecnici e giuridici. Anche alcune Regioni, come la Lombardia, hanno sperimentato forme di consultazione digitale, ma sempre in contesti non vincolanti o con forti limitazioni tecniche. Il futuro del voto (e della fiducia) Il vero nodo, al di là della tecnologia, è la fiducia. Il voto è il fondamento della democrazia, e ogni innovazione che lo riguarda deve essere inattaccabile, trasparente, verificabile. Nessuna tecnologia, per quanto avanzata, può essere adottata senza una solida architettura legale e un ampio consenso pubblico. Eppure, in un Paese dove milioni di persone utilizzano l’identità digitale per gestire la propria vita quotidiana, è lecito chiedersi se non sia il momento di iniziare un dibattito serio sul voto online. Una riflessione che metta al centro i cittadini, la sicurezza e l’equità. Perché la democrazia non può restare indietro rispetto alla tecnologia.
Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Cosa si nasconde nelle profondità di internet, al di là dei siti che visitiamo ogni giorno? Che cosa si muove, silenzioso, sotto la superficie di Google, Facebook e Amazon? Domande legittime, che aprono le porte a un mondo affascinante quanto inquietante: il "deep web" e il suo fratello più controverso, il "dark web". Deep Web: la parte sommersa dell’iceberg Immaginate internet come un iceberg. La parte visibile sopra il livello dell'acqua è ciò che conosciamo: social, motori di ricerca, testate giornalistiche, siti e-commerce. Ma questa è solo una minuscola porzione. Sotto, sommerso e invisibile ai radar di Google, si estende il deep web: una rete di contenuti accessibili solo tramite credenziali, query specifiche o link diretti. Qui si muovono archivi universitari, database sanitari, intranet aziendali, sistemi bancari. Nulla di illegale, ma sicuramente inaccessibile al cittadino medio. È una zona grigia, dove la riservatezza è fondamentale e l’indicizzazione, assente. Dark Web: luci spente e regole proprie Più in profondità ancora, si cela il dark web. Accessibile solo tramite software specifici come Tor (The Onion Router), è il cuore pulsante delle attività che sfuggono a ogni controllo. In questo spazio oscuro si muove di tutto: whistleblower che cercano anonimato, dissidenti politici in cerca di una voce... ma anche traffico illecito di dati, armi, droghe, identità. Secondo recenti studi, solo una parte relativamente piccola del dark web è dedicata ad attività criminali. Tuttavia, l’impatto che queste hanno sul mondo reale è tutt’altro che trascurabile: mercati neri digitali come il defunto Silk Road hanno rivoluzionato il concetto stesso di commercio illegale. Intelligenza artificiale e sorveglianza: nuovi attori nel sottosuolo Negli ultimi anni, anche l’intelligenza artificiale ha iniziato a fare capolino nelle zone meno esplorate della rete. Alcuni algoritmi automatizzati scandagliano il deep e dark web in cerca di minacce, fughe di dati o segnali premonitori di attacchi informatici. Un settore, quello della cybersecurity predittiva, che cresce rapidamente. Ma la tecnologia non è solo al servizio della legge. AI generative e bot automatizzati sono usati anche per creare contenuti falsi, manipolare opinioni, costruire identità digitali fittizie. Una battaglia invisibile si combatte ogni giorno nel buio della rete. Etica, regolamentazione e futuro Cosa si muove, dunque, nelle profondità di internet? Molto più di quanto immaginiamo: conoscenza, sorveglianza, illegalità, esperimenti, resistenza politica. Un ecosistema variegato e in continua mutazione, dove si mescolano genialità, pericolo e innovazione. La sfida, oggi, è duplice: regolare senza censurare, proteggere senza invadere, conoscere senza demonizzare. Perché internet, come ogni spazio umano, riflette ciò che siamo. Anche nelle sue parti più oscure. ๏ปฟ
Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Grazie alla tecnologia e all’automazione, persino una delle più simboliche attività di un capo di Stato - firmare documenti ufficiali - può essere delegata a una macchina. Si chiama Autopen ed è un dispositivo elettromeccanico che replica con precisione la firma del Presidente degli Stati Uniti (e di altre figure pubbliche) per approvare atti, lettere e altri documenti ufficiali anche quando il diretto interessato non è fisicamente presente. Che cos’è l’Autopen? L’Autopen è un apparecchio inventato nel XX secolo, perfezionato nel tempo per diventare sempre più sofisticato. Il suo funzionamento è semplice e al tempo stesso straordinario: grazie a un sistema meccanico controllato da un computer, riproduce la firma autografa memorizzata del suo titolare, tracciandola con una penna vera su fogli di carta. Il risultato è indistinguibile da una firma scritta a mano. Utilizzato originariamente da segretari e assistenti per firmare migliaia di lettere e biglietti di ringraziamento, oggi trova impiego anche ai vertici del potere politico e amministrativo. Il Presidente e l’uso ufficiale L’uso più noto dell’Autopen è quello del Presidente degli Stati Uniti, soprattutto in situazioni in cui non può essere presente fisicamente per firmare leggi o proclami urgenti. È accaduto per la prima volta in modo ufficiale nel 2011, quando il Presidente Barack Obama autorizzò l’uso dell’Autopen per firmare una legge mentre si trovava in Europa. La decisione suscitò dibattiti legali e politici, ma fu dichiarata legittima dal Dipartimento di Giustizia, purché l’uso del dispositivo fosse stato autorizzato preventivamente dal Presidente. Motivazioni pratiche e implicazioni legali L’Autopen è uno strumento estremamente utile nei casi in cui il Presidente sia in viaggio, malato, o semplicemente non abbia il tempo materiale per firmare ogni documento di routine. Tuttavia, il suo utilizzo pone interrogativi non banali: una firma meccanica ha lo stesso valore legale di una firma autografa? La risposta è sì, purché ci sia un’autorizzazione esplicita e tracciabile da parte del firmatario originale. Alcuni critici ritengono che questo tipo di automazione riduca il senso di responsabilità personale del firmatario, soprattutto quando si tratta di decisioni gravi o delicate. Altri lo vedono come un naturale progresso verso l’efficienza burocratica in un’epoca digitalizzata. Un futuro sempre più automatizzato? Se il Presidente degli Stati Uniti può affidare la propria firma a una macchina, chi altro lo farà in futuro? Già oggi molti dirigenti aziendali, funzionari pubblici e leader religiosi usano dispositivi simili per gestire in modo più efficiente la propria corrispondenza. In un mondo dove l’intelligenza artificiale e l’automazione prendono sempre più piede, non è difficile immaginare che strumenti come l’Autopen diventino la norma anche per le firme digitali e biometriche del futuro. In fondo, ciò che conta non è tanto la mano che impugna la penna, quanto l’intenzione consapevole di chi ordina quella firma. E se una macchina può esprimere quell’intenzione per conto di un leader, il confine tra presenza fisica e volontà politica diventa sempre più sottile.
Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Nel 2025, Internet è ormai parte integrante della vita quotidiana di miliardi di persone. Dall’accesso all’informazione in tempo reale alla possibilità di lavorare da remoto, l’uso della rete ha trasformato radicalmente il modo in cui comunichiamo, apprendiamo e facciamo economia. Tuttavia, mentre la connettività globale continua ad espandersi, persistono significative disparità nell’accesso e nell’utilizzo di Internet tra le diverse aree del mondo. Crescita globale della connettività Secondo i più recenti dati dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (UIT), oltre 5,4 miliardi di persone — circa il 67% della popolazione mondiale — sono connesse a Internet. Un dato in crescita rispetto agli anni precedenti, trainato in particolare dall’aumento degli utenti nei paesi in via di sviluppo e dall'espansione delle reti mobili. La maggior parte degli utenti si concentra in Asia, dove Cina e India rappresentano da sole circa un terzo degli utenti globali. L’Europa e il Nord America mostrano tassi di penetrazione tra i più alti, superiori al 90%, mentre l’Africa subsahariana continua a registrare livelli di accesso significativamente inferiori, con una media sotto il 40%. Le disuguaglianze digitali Le cosiddette digital divide (fratture digitali) non riguardano solo l’accesso fisico alla rete, ma anche la qualità della connessione, l’alfabetizzazione digitale e il costo dei dispositivi. In molte regioni rurali, ad esempio, l’infrastruttura è ancora carente e la copertura mobile inadeguata. Inoltre, in alcuni paesi, il costo dei dati mobili può rappresentare una quota significativa del reddito medio mensile, limitando fortemente la possibilità di navigare liberamente. A ciò si aggiunge una disparità di genere: secondo l’UIT, le donne hanno meno probabilità di usare Internet rispetto agli uomini, soprattutto in Africa e in Asia meridionale, dove le barriere culturali e sociali restano forti. Gli usi più comuni e l’impatto sociale A livello globale, i social media continuano a rappresentare una delle attività principali online, seguiti dallo streaming video, dal commercio elettronico e dalla fruizione di notizie. L’e-learning ha conosciuto una crescita esplosiva durante e dopo la pandemia di COVID-19, consolidando nuove forme di istruzione a distanza. Anche il mondo del lavoro sta vivendo una trasformazione irreversibile. Il telelavoro, una volta riservato a poche professioni, è diventato un’opzione concreta per milioni di lavoratori, specialmente nei settori ad alto contenuto tecnologico. Sicurezza, censura e libertà digitale Nonostante i vantaggi, l’uso globale di Internet solleva anche nuove sfide. Il cybercrimine è in aumento, così come le preoccupazioni per la privacy dei dati. In molte nazioni, inoltre, governi autoritari impongono restrizioni all’accesso all’informazione, controllando o censurando contenuti online e limitando la libertà di espressione. Organizzazioni come Freedom House monitorano costantemente il livello di libertà su Internet, segnalando una tendenza preoccupante: la crescente adozione di tecnologie di sorveglianza da parte dei governi e il calo della trasparenza degli algoritmi che regolano le piattaforme digitali. ๏ปฟ Uno sguardo al futuro Mentre il mondo corre verso un futuro sempre più interconnesso, l’obiettivo di un accesso universale, equo e sicuro alla rete rimane una delle sfide cruciali del XXI secolo. Investimenti nelle infrastrutture, politiche inclusive e alfabetizzazione digitale saranno fondamentali per garantire che Internet resti un motore di sviluppo e non un ulteriore fattore di disuguaglianza. In un pianeta che si fa sempre più digitale, la vera rivoluzione sarà rendere la rete uno spazio realmente accessibile a tutti.
Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Il fenomeno del revenge porn online ha assunto dimensioni preoccupanti, diventando uno degli aspetti più inquietanti della violenza digitale. Spesso alimentato da dinamiche di potere, vendetta o semplice superficialità, questo crimine mina profondamente la privacy e la dignità delle vittime. Ma di cosa si tratta esattamente? E come si può tentare di difendersi? Che cos’è il Revenge Porn Con il termine revenge porn (in italiano, “vendetta pornografica”) si indica la condivisione non consensuale di immagini o video a sfondo sessuale che ritraggono una persona, solitamente da parte di un ex partner o di qualcuno che ha avuto accesso ai contenuti in modo privato. Queste immagini vengono poi diffuse su internet — social network, siti pornografici, gruppi privati o pubblici — con l’intento di umiliare, minacciare o ricattare la vittima. Tuttavia, non sempre la motivazione è la vendetta. In molti casi, la pubblicazione avviene per goliardia, lucro o pura crudeltà, rendendo il termine "revenge porn" riduttivo. Per questo, si parla anche di “pornografia non consensuale”, una definizione più ampia e inclusiva. Un fenomeno in crescita Secondo i dati raccolti da centri di ascolto e associazioni che si occupano di cyberviolenza, le denunce sono aumentate negli ultimi anni, soprattutto tra i più giovani. I contenuti vengono spesso diffusi a catena, senza possibilità per la vittima di fermare la propagazione. Le conseguenze psicologiche sono devastanti: ansia, depressione, isolamento sociale, tentativi di suicidio. Le vittime spesso si sentono impotenti, colpevolizzate e stigmatizzate, invece di essere tutelate. Cosa prevede la legge In Italia, il revenge porn è reato dal 2019, con l’introduzione dell’articolo 612-ter del Codice Penale, nell’ambito del cosiddetto “Codice Rosso”. Chiunque diffonda immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone ritratte rischia da uno a sei anni di reclusione e multe fino a 15.000 euro. Le pene sono aggravate se il fatto è commesso da un ex partner o se la vittima è in una condizione di vulnerabilità. Come difendersi Difendersi dal revenge porn non è semplice, ma esistono alcuni strumenti e strategie utili: Non colpevolizzarsi: La responsabilità è sempre e solo di chi diffonde i contenuti, non di chi li ha realizzati in un contesto privato e consensuale. Segnalare subito: I social network principali (Facebook, Instagram, TikTok, X, Reddit) permettono la segnalazione di contenuti intimi diffusi senza consenso, con procedure specifiche. Rivolgersi alla Polizia Postale: È possibile sporgere denuncia anche online tramite il portale del Commissariato di PS. L’intervento tempestivo può limitare la diffusione. Assistenza legale e psicologica: Alcune associazioni, come PermessoNegato, Telefono Rosa o Cyber Rights, offrono supporto gratuito. Google e diritto all’oblio: Si può fare richiesta di rimozione dei link dai risultati di ricerca, allegando prove e spiegazioni dettagliate. La prevenzione passa dall’educazione Oltre agli strumenti legali, è fondamentale promuovere una cultura del rispetto del consenso e della privacy, soprattutto nelle scuole e tra i più giovani. Fare educazione digitale significa insegnare non solo come usare la tecnologia, ma anche come comportarsi online responsabilmente. Il revenge porn non è un errore: è un crimine. E come tale va trattato, con serietà, consapevolezza e giustizia. Proteggere le vittime significa proteggere i diritti di tutti.
Autore: by Antonello Camilotto 15 giugno 2025
Nel mondo iperconnesso dei social network, dove l'identità digitale ha un peso sempre più rilevante, cresce un fenomeno preoccupante: un numero crescente di adolescenti e preadolescenti omette o falsifica la propria età per accedere a piattaforme pensate per un pubblico più maturo. Una pratica tanto diffusa quanto sottovalutata, che solleva interrogativi urgenti su privacy, sicurezza e responsabilità delle piattaforme. Secondo recenti studi europei e report di associazioni per la tutela dei minori, oltre il 40% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni sarebbe iscritto ad almeno un social network nonostante l’età minima ufficiale di accesso — generalmente fissata a 13 anni secondo le policy di alcuni social. Ma non è raro che anche bambini più piccoli, con la complicità o l’ignara supervisione dei genitori, superino i controlli grazie a una semplice dichiarazione d’età falsa. L’età come barriera formale (ma non reale) Il requisito anagrafico è, di fatto, facilmente aggirabile. Basta inserire una data di nascita diversa, e l’iscrizione va a buon fine senza ulteriori verifiche. Le piattaforme si affidano al principio dell'autodichiarazione, scaricando implicitamente la responsabilità sugli utenti e sulle famiglie. I sistemi di verifica automatica, laddove esistono, sono ancora rudimentali e non sempre attivi in tutti i Paesi. «I social hanno poco interesse a bloccare iscrizioni che generano traffico e dati. E intanto, i più giovani si muovono in uno spazio digitale senza reale tutela». I rischi nascosti dietro un clic L'ingresso precoce nei social espone i minori a contenuti non adatti alla loro età, a dinamiche di pressione sociale, cyberbullismo e, nei casi peggiori, al contatto con adulti malintenzionati. Il tutto in un contesto in cui i ragazzi spesso non hanno ancora sviluppato gli strumenti critici per gestire la propria presenza online in modo consapevole. La mancanza di dichiarazione dell’età reale, inoltre, impedisce agli algoritmi delle piattaforme di attivare eventuali misure di protezione pensate per i minori: limitazione della pubblicità mirata, visibilità del profilo, possibilità di ricevere messaggi da sconosciuti. Famiglie e scuole: i primi argini Il ruolo della famiglia e della scuola è fondamentale. Non si tratta solo di impedire l’accesso precoce ai social, ma di accompagnare i ragazzi nell’uso corretto e consapevole degli strumenti digitali. «Serve educazione digitale, non proibizionismo. I ragazzi devono essere messi nelle condizioni di comprendere i rischi e le potenzialità del mondo online». Un futuro tra regolamenti e intelligenza artificiale? Nel frattempo, si moltiplicano le iniziative legislative per rafforzare la protezione dei minori in rete. Il Digital Services Act europeo impone maggiore trasparenza e responsabilità alle piattaforme, mentre alcune aziende stanno sperimentando sistemi basati su intelligenza artificiale per riconoscere l’età reale degli utenti, ad esempio attraverso l’analisi del volto o del comportamento online. Ma la questione rimane aperta: tra l’esigenza di tutelare e il rispetto della privacy, tra libertà di espressione e controllo, l’età digitale resta una frontiera sfumata. E mentre gli adulti discutono, i ragazzi continuano a navigare. Spesso da soli.
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