L’effetto Dunning-Kruger ai tempi dell’AI: quando i chatbot ci fanno sentire più intelligenti di quanto siamo

Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale generativa è entrata nelle nostre vite con una rapidità disarmante. Dai chatbot che scrivono email e saggi accademici, alle app che correggono testi o generano immagini, sembra che l’unico limite sia la nostra immaginazione. Ma c’è un paradosso sempre più evidente: più usiamo l’AI, più rischiamo di credere di essere competenti in campi che, in realtà, non comprendiamo davvero.
Questo fenomeno ha un nome ben preciso: effetto Dunning-Kruger. Descritto per la prima volta nel 1999 dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger, si riferisce alla tendenza degli individui con scarse competenze in un ambito a sopravvalutare le proprie capacità. In altre parole, meno sappiamo, più ci sentiamo sicuri.
Oggi questo effetto sembra vivere una seconda giovinezza grazie all’intelligenza artificiale. Chatbot come ChatGPT, Gemini o Claude rispondono con fluidità e sicurezza, producendo testi coerenti, spiegazioni convincenti e soluzioni apparentemente precise. L’utente medio, che fino a ieri doveva faticare per scrivere un articolo o risolvere un problema di logica, ora può farlo in pochi secondi. Ma questa facilità ha un costo: la sensazione, spesso ingannevole, di “sapere di più”.
Il punto non è che l’AI sbagli — anche se a volte lo fa — ma che la sua apparente infallibilità ci spinga a fidarci ciecamente, riducendo il nostro spirito critico. Una risposta articolata di un chatbot può sembrare il risultato di un ragionamento profondo, ma in realtà è frutto di correlazioni statistiche tra parole. Tuttavia, per chi non ha conoscenze solide sull’argomento, la distinzione tra competenza reale e illusione di competenza tende a svanire.
Gli esperti parlano di “outsourcing cognitivo”: deleghiamo all’intelligenza artificiale parti del nostro pensiero, rinunciando a comprendere davvero i processi dietro le risposte. Questo non solo alimenta l’effetto Dunning-Kruger, ma rischia di amplificarlo su scala di massa. L’AI, infatti, non si limita a farci credere di sapere: ci rende anche più sicuri delle nostre convinzioni, perché conferma e rafforza i nostri bias.
Il risultato? Professionisti che si sentono esperti dopo aver “chattato” qualche minuto con un modello linguistico, studenti che confondono il copia-incolla con la ricerca, e manager che prendono decisioni strategiche basandosi su risposte generate automaticamente.
L’era dell’intelligenza artificiale non elimina l’effetto Dunning-Kruger: lo maschera dietro un’interfaccia brillante e persuasiva. La vera sfida, oggi, è imparare a convivere con strumenti che potenziano le nostre capacità senza farci dimenticare i nostri limiti. Perché se è vero che l’AI può aiutarci a pensare meglio, è altrettanto vero che, senza consapevolezza critica, rischia di farci credere di non aver più bisogno di pensare affatto.
© 𝗯𝘆 𝗔𝗻𝘁𝗼𝗻𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗖𝗮𝗺𝗶𝗹𝗼𝘁𝘁𝗼
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