Verifica dell’età online: il paradosso europeo tra tutela dei minori e fine dell’anonimato

by Antonello Camilotto

In nome della protezione dei minori, l’Unione Europea sta spingendo verso nuove misure per la verifica dell’età online. L’obiettivo dichiarato: impedire l’accesso dei minori a contenuti inappropriati, come pornografia, gioco d’azzardo e violenza esplicita. Ma dietro questa nobile causa si cela un paradosso inquietante: per tutelare i giovani, si rischia di eliminare l’anonimato per tutti gli altri.


Le proposte legislative — contenute in diverse iniziative, tra cui l’European Digital Services Act e le raccomandazioni per una “Internet più sicura per i bambini” — impongono ai fornitori di contenuti di verificare in modo “efficace” l’età degli utenti. Fin qui, tutto comprensibile. Ma cosa significa davvero “verifica efficace”? E soprattutto, chi controlla e conserva i dati?


Dati sensibili in cambio di accesso


Per verificare l’età, le opzioni sono poche e tutte invasive: documenti d’identità, riconoscimento facciale, collegamento a servizi bancari. Sistemi che implicano l’identificazione personale dell’utente, anche per accedere a contenuti del tutto leciti per un adulto. È il prezzo da pagare, dicono i legislatori, per proteggere i più giovani.


Tuttavia, molte voci critiche — da attivisti digitali a esperti di privacy — lanciano l’allarme: così facendo, si demolisce uno dei pilastri fondamentali della libertà su Internet, ovvero l’anonimato. “Per evitare che un dodicenne acceda a un sito vietato, si finisce per schedare ogni trentenne che guarda un film vietato ai minori di 18 anni”, sintetizza un analista del think tank europeo EDRi (European Digital Rights).


Sorveglianza mascherata?


C'è chi teme che dietro la spinta alla protezione dei minori si nasconda un’ulteriore opportunità per la raccolta e il controllo dei dati personali. L’identificazione obbligatoria rende ogni navigazione tracciabile, ogni preferenza profilabile, ogni scelta potenzialmente analizzabile da governi o aziende.


“Un sistema che chiede di mostrare il passaporto digitale ogni volta che si apre un sito è incompatibile con una rete libera e democratica”, avverte Mozilla Foundation. “La tutela dei bambini non può essere usata come cavallo di Troia per introdurre una sorveglianza di massa.”


La sfida dell’equilibrio


Il paradosso si fa evidente: per proteggere una minoranza vulnerabile si impone un controllo pervasivo sulla maggioranza innocente. La sfida politica e tecnologica sarà trovare un equilibrio: sistemi che garantiscano una verifica dell’età robusta, ma che non compromettano i diritti digitali di tutti.


Soluzioni innovative — come i cosiddetti “verificatori fidati” o l’utilizzo di tecnologie zero-knowledge proof, che permettono di dimostrare l’età senza rivelare l’identità — sono già sul tavolo. Ma hanno ancora un cammino lungo da percorrere prima di essere adottate su larga scala.


Una questione di principio


In definitiva, la questione va oltre la tecnica e tocca i valori fondanti dell’Europa digitale. Vogliamo un’Internet che protegga i minori o una che sorvegli gli adulti? O, più semplicemente, è possibile costruire una rete che faccia entrambe le cose, senza compromettere libertà e diritti?


La risposta non è facile. Ma in un momento in cui la linea tra sicurezza e controllo si fa sempre più sottile, sarà fondamentale vigilare affinché la protezione non diventi censura, e l’identificazione non diventi schedatura.


© 𝗯𝘆 𝗔𝗻𝘁𝗼𝗻𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗖𝗮𝗺𝗶𝗹𝗼𝘁𝘁𝗼

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Autore: by Antonello Camilotto 21 luglio 2025
Una domanda affascinante continua a emergere tra studiosi, sviluppatori e curiosi: in che lingua “pensa” un’IA? Se parliamo con ChatGPT in italiano e poi in inglese, le risposte sono ugualmente fluide. Ma dietro le quinte, cosa succede davvero? L’intelligenza artificiale ha una lingua madre? La risposta breve: no, ma anche sì L’IA non pensa nel senso umano del termine. Non ha coscienza, pensieri propri, né un flusso interno di parole come accade nella mente umana. Tuttavia, la maggior parte dei modelli di IA — in particolare quelli basati su architetture di tipo transformer, come GPT — “operano” sul linguaggio. Ma non lo fanno in maniera culturale o emotiva: si limitano a riconoscere e generare sequenze di parole in base a ciò che hanno appreso dai dati. Quindi, possiamo dire che l’IA non ha una lingua interiore, ma lavora sulle lingue. Un cervello multilingue… o dominato dall’inglese? La stragrande maggioranza dei modelli linguistici, inclusi quelli sviluppati da OpenAI, Google o Meta, viene addestrata su testi provenienti da tutto il mondo. Tuttavia, gran parte di questi dati è in inglese. Questo significa che, anche se un’IA può rispondere in molte lingue, il “cuore” della sua comprensione e della sua struttura statistica tende a essere anglocentrico. Diversi studi hanno mostrato che modelli come GPT-4 tendono a performare meglio in inglese rispetto ad altre lingue, soprattutto su compiti complessi come la logica o la scrittura creativa. L’italiano, sebbene supportato bene, non è sempre trattato con la stessa precisione nei dettagli culturali o stilistici. La lingua come struttura, non come identità Pensare che un’IA “parli” interiormente una lingua equivale a umanizzarla. In realtà, un modello linguistico non ha identità linguistica. Funziona attraverso token numerici: ogni parola o parte di parola viene tradotta in una sequenza di numeri, che rappresentano vettori in uno spazio matematico astratto. Lì avviene il vero “pensiero” dell’IA: una complessa manipolazione di dati numerici che, al termine del processo, viene riconvertita in parole umane. In questo senso, la “lingua madre” dell’IA è fatta di numeri, non di parole. La lingua naturale arriva solo all’inizio e alla fine del processo. E le IA addestrate solo su una lingua? Esistono modelli addestrati esclusivamente su una lingua, ad esempio versioni monolingue di GPT o modelli sviluppati per mercati linguistici specifici. In questi casi, si può dire che il modello “opera” interamente in quella lingua, anche se sempre attraverso rappresentazioni numeriche. Tuttavia, questi modelli rischiano di essere meno versatili e meno robusti su compiti complessi o multi-culturali. L’illusione della mente umana Infine, va ricordato che l’intelligenza artificiale non ha un’esperienza soggettiva. Quando ci sembra che “pensi” come noi, è perché è brava a imitare il linguaggio umano. È un’illusione ben costruita, alimentata da miliardi di parole lette e riprodotte in modo statisticamente coerente. Ma dietro la maschera conversazionale, l’IA non pensa. Calcola. Quindi, in che lingua pensa l’IA? In nessuna. E in tutte. Ma soprattutto, nei numeri.
Autore: by Antonello Camilotto 17 luglio 2025
Ogni 17 luglio si celebra il World Emoji Day, la giornata mondiale dedicata alle piccole icone digitali che da oltre due decenni colorano le nostre conversazioni virtuali. Nati in Giappone alla fine degli anni ’90, gli emoji sono oggi una lingua universale che supera confini geografici, barriere linguistiche e differenze culturali. Perché proprio il 17 luglio? La data non è casuale: l'emoji del calendario 📅 mostra, per default, proprio il 17 luglio. È un omaggio all’introduzione di iCal, il calendario di Apple, presentato per la prima volta in quella data nel 2002. Dal 2014, il fondatore di Emojipedia, Jeremy Burge, ha scelto di trasformare quella data nel momento perfetto per celebrare l’impatto degli emoji nella comunicazione globale. Da semplici simboli a linguaggio globale Gli emoji nascono in Giappone nel 1999 grazie a Shigetaka Kurita, che li progettò per la piattaforma i-mode di NTT DoCoMo. Erano 176 icone semplici, create per facilitare la comunicazione su piccoli schermi. Da allora, il loro numero è esploso: oggi sono oltre 3.800 quelli riconosciuti dallo Unicode Consortium, l’organismo che si occupa della standardizzazione del linguaggio emoji. Oggi usiamo emoji per esprimere emozioni, ironia, idee astratte, identità e perfino ideologie. L’emoji 😂 ("face with tears of joy") è stato per anni il più usato al mondo, simbolo dell’ironia digitale. Ma le classifiche cambiano, così come il modo di comunicare. Una giornata pop, ma anche riflessiva Il World Emoji Day non è solo una festa leggera. Ogni anno, in questa occasione, si apre anche una riflessione sul ruolo culturale e sociale degli emoji. Le aziende tech annunciano nuovi aggiornamenti, l’Unicode Consortium anticipa le prossime icone in arrivo, e si discutono temi come l’inclusività, la rappresentazione di genere, le disabilità e le minoranze. Negli ultimi anni sono stati introdotti emoji che rappresentano persone con disabilità, tonalità di pelle diverse, famiglie non tradizionali, e simboli di molte culture. Questo perché, come afferma Emojipedia, “gli emoji devono rappresentare tutti”. Tra cultura pop e marketing  Il World Emoji Day è anche un’occasione per i brand: campagne social, gadget, edizioni speciali e post celebrativi invadono la rete. Nel 2021, ad esempio, Google ha annunciato una serie di redesign per rendere gli emoji più “universalmente comprensibili”, mentre Apple e Samsung colgono spesso l’occasione per mostrare anteprime delle nuove emoji in arrivo. Ma anche il mondo dell’informazione e dell’arte guarda agli emoji con interesse: esistono mostre dedicate, studi accademici, e perfino traduzioni di classici come Moby Dick interamente riscritti in emoji. Un futuro in continua evoluzione In un’epoca dominata da comunicazioni brevi, visive e spesso asincrone, gli emoji hanno saputo conquistare uno spazio stabile tra parole e immagini. La loro evoluzione continua ci racconta molto di come cambia il nostro modo di esprimerci — e, in fondo, anche di come cambia il nostro modo di essere umani. Il World Emoji Day è dunque molto più di una curiosità digitale: è una lente sulla nostra società. E forse, come direbbe qualcuno, una faccina vale più di mille parole. 😉
Autore: by Antonello Camilotto 25 giugno 2025
Nel mondo iperconnesso di oggi, dove smartphone, auto e dispositivi intelligenti dominano la nostra quotidianità, il concetto di Kill Switch – letteralmente “interruttore di emergenza” – sta guadagnando sempre più attenzione. Nato come misura di sicurezza in ambiti militari e industriali, il Kill Switch è oggi al centro di un acceso dibattito tra tutela della sicurezza pubblica, diritto alla privacy e controllo tecnologico. Cos’è un Kill Switch? Il Kill Switch è un meccanismo (fisico o digitale) progettato per spegnere un dispositivo, un sistema informatico o una rete in modo immediato e definitivo. In ambito tecnologico, viene spesso integrato nei software per consentire al produttore o a un’autorità competente di disattivare un dispositivo da remoto, in caso di furto, malfunzionamenti critici o minacce alla sicurezza. Esempi concreti? Gli smartphone Apple e Android integrano da anni sistemi di blocco remoto per dissuadere i furti. In ambito automobilistico, alcune vetture moderne possono essere disattivate a distanza in caso di mancato pagamento di un leasing o in scenari di emergenza. Sicurezza o sorveglianza? Il Kill Switch viene spesso presentato come strumento di protezione. Nei paesi dove il furto di smartphone è endemico, la possibilità di rendere inutilizzabile un dispositivo rubato ha portato a un drastico calo dei reati. In ambito militare e industriale, invece, il Kill Switch è cruciale per impedire la compromissione di tecnologie sensibili o per gestire emergenze critiche. Tuttavia, la possibilità di spegnere un dispositivo da remoto solleva interrogativi importanti. Chi detiene il potere di attivare un Kill Switch? Con quali garanzie? In mano a governi autoritari o a multinazionali tecnologiche, un Kill Switch potrebbe diventare uno strumento di censura o controllo, capace di zittire dissidenti, impedire proteste o compromettere l’autonomia dell’individuo. Kill Switch su Internet: il caso dell’Egitto e oltre Nel gennaio del 2011, durante le proteste della Primavera Araba, il governo egiziano ordinò la disconnessione totale di Internet nel paese. Questo evento – definito da molti come “Kill Switch nazionale” – mostrò al mondo che l’infrastruttura tecnologica può essere manipolata per silenziare la popolazione. Altri paesi hanno seguito l’esempio in varie forme: dall’India all’Iran, passando per la Cina, i blackout digitali sono diventati strumenti frequenti di controllo politico. In questo contesto, il Kill Switch non è solo un tema tecnico, ma un argomento etico, politico e sociale. Intelligenza Artificiale e veicoli autonomi: Kill Switch del futuro? Con l’avanzata dell’intelligenza artificiale e dei sistemi autonomi, il Kill Switch assume una nuova rilevanza. Veicoli a guida autonoma, robot industriali e sistemi di AI sempre più sofisticati potrebbero diventare pericolosi in caso di malfunzionamento o manipolazione. La comunità scientifica, tra cui esperti come Elon Musk e il defunto Stephen Hawking, ha più volte sottolineato la necessità di avere “interruttori d’emergenza” per prevenire scenari fuori controllo. Tuttavia, spegnere un sistema intelligente non è sempre semplice. Alcune IA avanzate potrebbero sviluppare strategie per aggirare un Kill Switch, alimentando discussioni su come progettare “bottoni rossi” efficaci e a prova di sabotaggio. Il Kill Switch è una tecnologia tanto utile quanto controversa. La sua implementazione tocca il cuore di questioni fondamentali: chi controlla la tecnologia? Come bilanciare sicurezza e libertà? In un’epoca in cui la nostra vita dipende sempre più da dispositivi digitali, il potere di “spegnere tutto” diventa uno dei temi più delicati e cruciali del nostro tempo. Il dibattito è aperto. E, forse, non c’è un interruttore che possa spegnerlo.
Autore: by Antonello Camilotto 23 giugno 2025
Nel mondo contemporaneo, dove la tecnologia permea ogni aspetto della vita quotidiana, nasce un concetto nuovo e affascinante: la spiritualità digitale. Ma cosa significa davvero questo termine? È solo un ossimoro moderno o rappresenta un'autentica evoluzione del modo in cui l'essere umano vive il sacro? La spiritualità al tempo del digitale La spiritualità è, da sempre, la ricerca di senso, connessione e trascendenza. È un'esperienza che va oltre la materialità, legata al bisogno di comprendere il proprio posto nell’universo. Con l'avvento della tecnologia digitale, questa ricerca si è trasformata, adattandosi ai nuovi mezzi e linguaggi. La spiritualità digitale non sostituisce la spiritualità tradizionale, ma la integra. Si manifesta nell'uso consapevole delle tecnologie per coltivare la consapevolezza, l'interiorità e la connessione con gli altri. Può prendere forma in molteplici modi: attraverso app di meditazione, comunità spirituali online, podcast sul benessere interiore, dirette social di leader religiosi o contenuti che promuovono la crescita personale. Le forme della spiritualità digitale App e piattaforme : Strumenti come Headspace, Insight Timer o Calm offrono meditazioni guidate, esercizi di respirazione e percorsi di consapevolezza accessibili ovunque. Sono esempi chiari di spiritualità digitale pratica. Comunità virtuali : Forum, gruppi Facebook o Discord, canali YouTube e profili Instagram diventano veri e propri spazi sacri digitali dove condividere riflessioni, rituali e supporto reciproco. Eventi online : Ritiri spirituali, cerimonie, preghiere collettive o momenti di meditazione si trasferiscono nel digitale, rompendo le barriere geografiche e rendendo l’esperienza accessibile a più persone. Intelligenza artificiale e spiritualità : Assistenti virtuali e chatbot spirituali (come quelli che offrono letture di testi sacri o meditazioni su misura) stanno aprendo nuovi scenari, in cui la tecnologia funge da guida spirituale personalizzata. Le opportunità La spiritualità digitale permette di democratizzare l’accesso a percorsi interiori. Persone che altrimenti non avrebbero contatti con pratiche spirituali, per motivi geografici, culturali o personali, possono avvicinarsi a esse in modo semplice e personalizzato. Inoltre, consente una spiritualità “a misura d’uomo”, non dogmatica, più flessibile e adatta alle esigenze contemporanee. Le criticità Tuttavia, la spiritualità digitale non è esente da rischi. C'è il pericolo della superficialità: pratiche spirituali ridotte a “consumo veloce”, fruite senza reale profondità. Inoltre, l’iperconnessione può diventare un ostacolo all’autentica introspezione, trasformando la ricerca del sacro in un’ulteriore distrazione. È fondamentale mantenere un atteggiamento critico e consapevole verso gli strumenti digitali, ricordando che essi sono mezzi, non fini. La spiritualità digitale è un fenomeno in continua evoluzione, specchio del nostro tempo. Non si tratta di una moda passeggera, ma di una trasformazione culturale che pone interrogativi profondi su come viviamo il senso, la connessione e il silenzio interiore in un mondo sempre connesso. Se usata con consapevolezza, la tecnologia può diventare un ponte verso una spiritualità più inclusiva, accessibile e attuale, senza perdere il contatto con la dimensione profonda dell’umano.
Autore: by Antonello Camilotto 21 giugno 2025
Nel XXI secolo, il mondo è diventato più interconnesso che mai. Le reti digitali alimentano tutto: comunicazioni, trasporti, finanza, sanità, infrastrutture critiche. Questo livello di dipendenza dalla tecnologia ha migliorato la qualità della vita, ma ha anche aperto nuove vulnerabilità su scala globale. La domanda quindi è più attuale che mai: il mondo potrebbe davvero subire un attacco informatico catastrofico? La natura delle minacce informatiche globali Gli attacchi informatici sono ormai una componente stabile del panorama della sicurezza globale. Dalle campagne di ransomware che paralizzano ospedali e aziende, fino alle operazioni di spionaggio digitale condotte da stati nazionali, i rischi sono reali, quotidiani e in rapida evoluzione. Gli attacchi più gravi finora hanno avuto impatti significativi ma localizzati. Si pensi a Stuxnet, il virus informatico che ha colpito il programma nucleare iraniano nel 2010, o al ransomware NotPetya del 2017, che ha causato miliardi di dollari di danni, colpendo imprese e istituzioni in tutto il mondo. Tuttavia, questi eventi non hanno provocato un collasso sistemico. La domanda è: cosa succederebbe se un attacco coordinato colpisse simultaneamente più infrastrutture critiche? Cosa si intende per “catastrofico”? Un attacco informatico catastrofico non è semplicemente un’interruzione o un furto di dati: implica il blocco prolungato di servizi fondamentali su larga scala. Parliamo, ad esempio, di: Paralisi delle reti elettriche in più paesi Compromissione di sistemi bancari con perdita o manipolazione massiva di dati finanziari Attacchi ai sistemi satellitari o GPS che regolano trasporti, logistica e difesa Diffusione incontrollata di disinformazione per destabilizzare governi o creare panico In uno scenario del genere, il confine tra guerra informatica e guerra tradizionale si assottiglierebbe notevolmente. Chi potrebbe scatenarlo? Le fonti potenziali di un attacco catastrofico includono: Stati ostili, dotati di sofisticate capacità cyber (come Stati Uniti, Russia, Cina, Iran, Corea del Nord) Gruppi terroristici o hacktivisti, motivati da ideologie radicali o desideri di destabilizzazione Organizzazioni criminali, attratte dal potenziale guadagno o dal ricatto Errori o incidenti interni, in cui un bug o un software difettoso scatena conseguenze a catena (simili ai “bug dell’anno 2000” temuti all’epoca). Il rischio reale La possibilità di un attacco informatico catastrofico esiste, ma è considerata a bassa probabilità e alto impatto. Le nazioni investono miliardi nella cybersicurezza proprio per evitare che si verifichi un evento del genere. Tuttavia, la complessità e interdipendenza dei sistemi digitali aumenta il rischio di vulnerabilità inaspettate. Inoltre, la deterrenza che funziona nel mondo fisico (come la minaccia nucleare) è più difficile da applicare nel cyberspazio, dove l’attribuzione di un attacco è spesso incerta. Questo rende il cyberspazio un terreno fertile per operazioni “ibridi” sotto il livello di guerra dichiarata. Cosa si può fare? Prevenire un attacco catastrofico richiede un approccio multilivello: Miglioramento continuo delle infrastrutture critiche, con aggiornamenti costanti e segmentazione dei sistemi Cooperazione internazionale, per condividere intelligence e definire norme comuni nel cyberspazio Simulazioni e addestramento, per preparare governi e imprese a rispondere in modo coordinato Educazione e consapevolezza pubblica, perché la sicurezza informatica parte anche dagli utenti comuni Un attacco informatico catastrofico non è solo fantascienza. È una possibilità concreta che richiede preparazione, vigilanza e collaborazione a livello globale. Anche se il mondo ha evitato finora una crisi informatica su scala sistemica, la minaccia rimane all’orizzonte. La domanda non è più se accadrà, ma quanto siamo pronti a rispondere.
Autore: by Antonello Camilotto 21 giugno 2025
Mentre il mondo ancora si attrezza per il pieno utilizzo delle reti 5G, il futuro della difesa e del controllo dell’informazione si sta già scrivendo nella tecnologia 6G, un’evoluzione non solo di connettività, ma anche di potenza strategica. Benvenuti nella Guerra Elettronica 6G, il fronte invisibile in cui si gioca la supremazia globale. Cos'è la Guerra Elettronica 6G? Con "guerra elettronica 6G" si intende l’impiego delle potenzialità offerte dalla sesta generazione delle telecomunicazioni mobili per scopi militari, d’intelligence e di controllo del cyberspazio. Il 6G, atteso tra il 2030 e il 2035, promette velocità di trasmissione dati fino a 100 volte superiori al 5G, latenza prossima allo zero e la capacità di integrare comunicazioni terrestri, satellitari e quantistiche. Queste caratteristiche lo rendono ideale non solo per applicazioni civili, ma anche per lo sviluppo di nuove capacità belliche: droni autonomi interconnessi, guerra cognitiva, attacchi cibernetici in tempo reale e manipolazione dell'informazione a scala globale. Il dominio dell'invisibile La guerra elettronica non è nuova: già dalla Guerra Fredda si ricorreva a radar, disturbi radio e contromisure elettroniche. Ma con il 6G, la portata e la precisione di questi strumenti si amplifica esponenzialmente. I sistemi 6G permetteranno, ad esempio, di "vedere" attraverso muri grazie alle onde millimetriche, di intercettare segnali cifrati sfruttando l’intelligenza artificiale e persino di influenzare il comportamento umano tramite operazioni psicologiche personalizzate e mirate. Secondo uno studio del Center for Strategic and International Studies (CSIS), il 6G sarà il catalizzatore di un nuovo paradigma: la guerra cognitiva, in cui l’obiettivo non è solo distruggere infrastrutture, ma manipolare le percezioni, i pensieri e le emozioni del nemico. Il ruolo delle superpotenze Cina, Stati Uniti e Unione Europea stanno già investendo miliardi nello sviluppo di questa tecnologia. Pechino ha lanciato nel 2020 il primo satellite di test 6G, mentre il Pentagono ha avviato progetti sperimentali che integrano 6G e intelligenza artificiale nei sistemi di difesa. L’Unione Europea, con il programma Hexa-X, punta a garantire un ecosistema sicuro e trasparente, ma teme la dipendenza tecnologica dalle altre potenze. “La corsa al 6G è anche una corsa per la superiorità militare del XXI secolo”, ha dichiarato il generale americano John Hyten, già vicecapo degli Stati Maggiori Riuniti. “Chi controllerà le infrastrutture 6G controllerà il campo di battaglia digitale”. I rischi per la società civile Il confine tra uso civile e militare sarà sempre più sfumato. La stessa rete che abilita auto a guida autonoma, operazioni chirurgiche da remoto e realtà aumentata, può essere impiegata per sorveglianza di massa, sabotaggio infrastrutturale e propaganda sofisticata. L’integrazione del 6G con tecnologie emergenti come il computing neuromorfico e la comunicazione quantistica pone nuove sfide etiche e geopolitiche. Chi garantirà la sicurezza dei dati, la neutralità della rete, la protezione delle menti? La Guerra Elettronica 6G non sarà fatta di bombe e carri armati, ma di bit, algoritmi e onde elettromagnetiche. Un conflitto silenzioso, pervasivo, potenzialmente devastante. Comprendere oggi la portata di questa trasformazione è fondamentale per garantire domani la pace e la sicurezza, non solo delle nazioni, ma degli individui stessi. "Il futuro non sarà conquistato con la forza, ma con il controllo dell'informazione".
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