Può l’IA riconoscere i segnali dello stress cronico?

by Antonello Camilotto

L’uso dell’intelligenza artificiale nella rilevazione dello stress cronico sta attirando sempre più attenzione nel mondo della ricerca e della tecnologia. Diversi studi dimostrano che algoritmi avanzati sono in grado di identificare segnali fisiologici e comportamentali spesso troppo sottili per essere notati da un osservatore umano. Attraverso l’analisi della voce, delle variazioni del battito cardiaco, dei pattern di sonno e persino dello stile di scrittura, l’IA può riconoscere indicatori precoci di stress prolungato.

 

Un aspetto particolarmente interessante è la capacità dei sistemi di apprendimento automatico di incrociare dati provenienti da fonti diverse, come smartphone, smartwatch e applicazioni di monitoraggio, creando un quadro complessivo dello stato emotivo dell’utente. Questa integrazione permette di evidenziare correlazioni tra comportamenti quotidiani e livelli di tensione che spesso sfuggono all’autovalutazione.

 

Tuttavia, l’avanzamento tecnologico porta con sé questioni delicate. La raccolta continua di dati personali solleva preoccupazioni sulla tutela della privacy, mentre l’affidabilità degli algoritmi rimane un tema aperto: il rischio di falsi positivi o interpretazioni imprecise potrebbe influire sulle decisioni cliniche. Gli esperti invitano quindi a considerare l’IA come uno strumento complementare, utile nel supporto alla diagnosi ma non sostitutivo dell’intervento umano.

 

Nonostante le sfide, il potenziale è enorme. Nel prossimo futuro, queste tecnologie potrebbero aiutare a prevenire disturbi legati allo stress, offrendo a medici e utenti nuovi mezzi per individuare in anticipo segnali di allarme. L’obiettivo è costruire un equilibrio tra innovazione e responsabilità, affinché l’IA possa diventare un alleato nella tutela della salute mentale.


© 𝗯𝘆 𝗔𝗻𝘁𝗼𝗻𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗖𝗮𝗺𝗶𝗹𝗼𝘁𝘁𝗼

Tutti i diritti riservati | All rights reserved



Informazioni Legali

I testi, le informazioni e gli altri dati pubblicati in questo sito nonché i link ad altri siti presenti sul web hanno esclusivamente scopo informativo e non assumono alcun carattere di ufficialità.

Non si assume alcuna responsabilità per eventuali errori od omissioni di qualsiasi tipo e per qualunque tipo di danno diretto, indiretto o accidentale derivante dalla lettura o dall'impiego delle informazioni pubblicate, o di qualsiasi forma di contenuto presente nel sito o per l'accesso o l'uso del materiale contenuto in altri siti.


Autore: by antonellocamilotto.com 12 luglio 2022
Click to Pay, Biometric Checkout, Cloud POS ed Holographic POS sono tra i progetti per il pos: i primi due intendono semplificare i pagamenti online ed in negozio, con Click to Pay che riconosce l’utente presso qualsiasi e-store si rivolga (conservando i suoi dati in un profilo protetto), e Biometric Checkout che consente al consumatore di effettuare acquisti in modalità completamente contactless, attraverso il riconoscimento della propria identità legata alle proprie disponibilità economiche. Cloud POS, invece, consente alle imprese di ricevere pagamenti attraverso dispositivi abilitati alle transazioni NFC (Near Field Communication). Infine, la tecnologia Holographic POS punta sulla salvaguardia dell’igiene durante i pagamenti, consentendo ai consumatori di scannerizzare i prodotti d’acquisto e di scegliere poi il metodo di pagamento preferito.
Autore: by Antonello Camilotto 26 novembre 2025
Un tempo, esplorare il web significava orientarsi tra testi, link blu sottolineati e menu poco intuitivi. Oggi, basta un clic su una piccola immagine per accedere a funzioni, contenuti o servizi complessi. Le icone, elementi grafici tanto semplici quanto potenti, hanno rivoluzionato il modo in cui interagiamo con Internet. Dalle origini simboliche ai linguaggi universali Le prime icone digitali risalgono agli anni ’80, quando i sistemi operativi introdussero simboli per rappresentare cartelle, file e strumenti. Con l’avvento del web negli anni ’90, le icone iniziarono a comparire anche nelle pagine online, semplificando la comprensione delle interfacce per un pubblico sempre più vasto. Da allora, il loro ruolo è diventato cruciale: un’icona ben disegnata può sostituire intere frasi di testo e comunicare un’azione in modo immediato e universale. Il simbolo del carrello per lo shopping, la lente per la ricerca o l’aeroplano di carta per l’invio dei messaggi sono ormai riconosciuti in ogni parte del mondo, indipendentemente dalla lingua o dalla cultura. L’era del design minimalista Negli ultimi anni, la tendenza del flat design e dell’user-centered design ha portato a una semplificazione estrema delle icone. Linee pulite, colori neutri e forme essenziali rendono la navigazione più fluida e coerente tra diversi dispositivi. Le icone non sono più soltanto decorative: sono veri e propri strumenti di orientamento visivo, fondamentali per l’usabilità. Accessibilità e sfide del futuro Nonostante la loro efficacia, le icone presentano ancora delle criticità. Non sempre il loro significato è immediato, e l’abuso di simboli può generare confusione. Inoltre, la sfida dell’accessibilità impone ai designer di accompagnare ogni icona con alternative testuali, per garantire la comprensione anche a chi utilizza lettori di schermo. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale e delle interfacce vocali, le icone potrebbero assumere nuovi ruoli, diventando punti di ancoraggio visivi in esperienze sempre più ibride tra voce, testo e immagine. Un linguaggio che evolve con noi Le icone non sono solo strumenti grafici, ma veri e propri codici culturali in continua trasformazione. Raccontano il modo in cui comunichiamo, pensiamo e ci muoviamo nel mondo digitale. In un web sempre più visivo, la loro evoluzione è la prova che, a volte, un’immagine vale davvero più di mille parole.
Autore: by Antonello Camilotto 13 novembre 2025
Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale generativa è entrata nelle nostre vite con una rapidità disarmante. Dai chatbot che scrivono email e saggi accademici, alle app che correggono testi o generano immagini, sembra che l’unico limite sia la nostra immaginazione. Ma c’è un paradosso sempre più evidente: più usiamo l’AI, più rischiamo di credere di essere competenti in campi che, in realtà, non comprendiamo davvero. Questo fenomeno ha un nome ben preciso: effetto Dunning-Kruger. Descritto per la prima volta nel 1999 dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger, si riferisce alla tendenza degli individui con scarse competenze in un ambito a sopravvalutare le proprie capacità. In altre parole, meno sappiamo, più ci sentiamo sicuri. Oggi questo effetto sembra vivere una seconda giovinezza grazie all’intelligenza artificiale. Chatbot come ChatGPT, Gemini o Claude rispondono con fluidità e sicurezza, producendo testi coerenti, spiegazioni convincenti e soluzioni apparentemente precise. L’utente medio, che fino a ieri doveva faticare per scrivere un articolo o risolvere un problema di logica, ora può farlo in pochi secondi. Ma questa facilità ha un costo: la sensazione, spesso ingannevole, di “sapere di più”. Il punto non è che l’AI sbagli — anche se a volte lo fa — ma che la sua apparente infallibilità ci spinga a fidarci ciecamente, riducendo il nostro spirito critico. Una risposta articolata di un chatbot può sembrare il risultato di un ragionamento profondo, ma in realtà è frutto di correlazioni statistiche tra parole. Tuttavia, per chi non ha conoscenze solide sull’argomento, la distinzione tra competenza reale e illusione di competenza tende a svanire. Gli esperti parlano di “outsourcing cognitivo”: deleghiamo all’intelligenza artificiale parti del nostro pensiero, rinunciando a comprendere davvero i processi dietro le risposte. Questo non solo alimenta l’effetto Dunning-Kruger, ma rischia di amplificarlo su scala di massa. L’AI, infatti, non si limita a farci credere di sapere: ci rende anche più sicuri delle nostre convinzioni, perché conferma e rafforza i nostri bias. Il risultato? Professionisti che si sentono esperti dopo aver “chattato” qualche minuto con un modello linguistico, studenti che confondono il copia-incolla con la ricerca, e manager che prendono decisioni strategiche basandosi su risposte generate automaticamente. L’era dell’intelligenza artificiale non elimina l’effetto Dunning-Kruger: lo maschera dietro un’interfaccia brillante e persuasiva. La vera sfida, oggi, è imparare a convivere con strumenti che potenziano le nostre capacità senza farci dimenticare i nostri limiti. Perché se è vero che l’AI può aiutarci a pensare meglio, è altrettanto vero che, senza consapevolezza critica, rischia di farci credere di non aver più bisogno di pensare affatto.
Autore: by Antonello Camilotto 12 novembre 2025
Negli ultimi anni l’intelligenza artificiale è diventata la parola d’ordine di governi, aziende tecnologiche, investitori e media. La crescita esplosiva di modelli linguistici avanzati, applicazioni generative, automazione intelligente e start-up valutate miliardi di dollari ha alimentato un entusiasmo paragonato da molti alla corsa all’oro digitale delle dot-com. Ma cosa accadrebbe se questa corsa improvvisamente si fermasse? Se la “bolla dell’IA” – ammesso che esista – esplodesse davvero? Valutazioni fuori scala e aspettative irrealistiche Secondo molti analisti, il rischio principale è legato alle aspettative. In numerosi settori l’IA viene descritta come una soluzione universale: capace di rivoluzionare la produttività, sostituire interi professioni e generare profitti immediati. La realtà, però, è più complessa. I costi di sviluppo e mantenimento dei modelli sono elevatissimi; l’infrastruttura hardware è sotto pressione globale; e non sempre l’utilizzo dell’IA si traduce in un vantaggio economico concreto. Se il mercato dovesse rendersi conto che i ricavi non tengono il passo con gli investimenti, la correzione potrebbe essere brusca. Chi rischierebbe di più Una crisi del settore colpirebbe a cascata diversi ambiti: Le big tech , che hanno puntato gran parte della loro strategia sull’IA, vedrebbero calare investimenti e fiducia del mercato. Le startup , spesso fondate su modelli di business ancora incerti, rischierebbero una stretta sui finanziamenti. I fornitori di chip e cloud , oggi trainati dalla domanda record, potrebbero subire un contraccolpo improvviso. I lavoratori , soprattutto nei settori tecnologici, sarebbero esposti a nuove ondate di licenziamenti. In altre parole, la filiera dell’IA è talmente interconnessa che un ridimensionamento del settore avrebbe effetti sistemici. Il precedente delle dot-com Il paragone con lo scoppio della bolla di Internet nei primi anni 2000 è inevitabile. Anche allora, l’entusiasmo aveva superato la solidità dei modelli economici. Tuttavia, da quel crollo è emersa comunque l’Internet che oggi utilizziamo: più matura, più solida e soprattutto sostenuta da infrastrutture reali. Potrebbe accadere lo stesso con l’intelligenza artificiale: un’eventuale crisi non segnerebbe la fine della tecnologia, ma la fine delle illusioni. Perché non sarebbe la fine dell'IA Paradossalmente, una “bolla che scoppia” avrebbe anche aspetti positivi. Potrebbe: sgonfiare l’hype, riportando il settore a una dimensione più realistica; favorire la ricerca scientifica rispetto alle strategie commerciali aggressive; rendere più chiari i casi d’uso davvero utili; spingere verso regolamentazioni più lungimiranti. L’IA non scomparirebbe: cambierebbe semplicemente ritmo, e forse diventerebbe più sostenibile. In conclusione: davvero “non si salva nessuno”? L’eventuale scoppio della bolla dell’IA metterebbe sicuramente in difficoltà aziende, investitori e interi segmenti dell’economia. Ma non sarebbe un punto di non ritorno. Piuttosto, segnerebbe il passaggio dalla fase speculativa a quella concreta, dove a sopravvivere sarebbero i progetti con un reale valore tecnologico e sociale. La vera domanda, dunque, non è se l’IA sopravvivrà a una crisi: ma chi riuscirà ad adattarsi al mondo che ne emergerà.
Autore: by Antonello Camilotto 12 novembre 2025
L’era digitale non ha solo trasformato il modo in cui comunichiamo, lavoriamo o ci informiamo: ha cambiato anche la geografia del potere criminale. Le organizzazioni mafiose, tradizionalmente legate al controllo del territorio, oggi si muovono con agilità tra spazi virtuali, piattaforme digitali e circuiti finanziari globali. L’utilizzo di criptovalute, il ricorso al dark web e la capacità di sfruttare falle nei sistemi informatici rappresentano i nuovi strumenti di un potere che non ha più bisogno di piazze o quartieri per imporre la propria influenza. Secondo le ultime analisi delle forze dell’ordine e degli osservatori internazionali, le mafie si stanno adattando con sorprendente rapidità ai meccanismi della tecnologia, aprendosi a nuovi settori: dal riciclaggio online alle frodi informatiche, passando per la manipolazione dei dati personali e la diffusione di contenuti illegali. Il passaggio dalla dimensione fisica a quella digitale non ha cancellato la struttura gerarchica o il codice d’onore che da sempre contraddistingue le organizzazioni criminali, ma ne ha potenziato l’efficacia. Attraverso la rete, i clan possono coordinare attività in tempo reale, investire capitali all’estero, reclutare nuovi affiliati e perfino condurre campagne di disinformazione per influenzare l’opinione pubblica. Le indagini più recenti mostrano come la trasformazione digitale offra anche nuove opportunità di contrasto. Le tecniche di tracciamento delle criptovalute, l’intelligenza artificiale applicata all’analisi dei flussi finanziari e la collaborazione tra forze di polizia internazionali stanno aprendo spiragli di speranza nella lotta a un fenomeno in continua evoluzione. Il futuro della criminalità organizzata si gioca dunque su un doppio fronte: quello virtuale, dove si combatte con algoritmi e dati, e quello reale, dove le mafie continuano a esercitare il loro potere economico e sociale. In un mondo sempre più interconnesso, la sfida è capire che il territorio da difendere non è più solo una città o una regione, ma l’intero spazio digitale in cui ogni cittadino, consapevolmente o meno, si muove ogni giorno.
Autore: by Antonello Camilotto 12 novembre 2025
Un tempo si chiedeva consiglio a un amico prima di comprare qualcosa. Oggi basta aprire Instagram o TikTok per farsi un’idea: nel social commerce la fiducia ha cambiato volto, e i creator sono diventati i nuovi “amici di fiducia” del web. Video recensioni, tutorial, dirette di unboxing e link affiliati: i creator hanno costruito un rapporto diretto e quotidiano con i loro follower, che li percepiscono come persone autentiche, competenti e trasparenti. E quando consigliano un prodotto, il pubblico li ascolta — più di quanto non farebbe con un amico o un familiare.  Le ricerche di mercato lo confermano: per la generazione Z e i millennial, i consigli dei content creator contano più di quelli del passaparola tradizionale. In un feed sempre più personalizzato, la fiducia non nasce da legami personali, ma dall’identificazione: “mi fido di chi mi somiglia, di chi vive le mie stesse esperienze, di chi mi parla ogni giorno attraverso lo schermo”. Il risultato? I social sono diventati veri e propri centri commerciali digitali. Piattaforme come TikTok Shop, Instagram Shopping e YouTube Shopping rendono l’acquisto immediato: un tap e il prodotto è nel carrello. Dietro ogni conversione, però, c’è un volto riconoscibile, un tono di voce familiare e una storia che ispira fiducia. Le aziende lo sanno bene e investono sempre di più nelle collaborazioni con i creator, puntando su autenticità, trasparenza e storytelling. Non serve più la celebrità, serve credibilità. Il social commerce, in fondo, racconta questo: l’influenza non è più una questione di popolarità, ma di fiducia. E oggi, per molti utenti, quella fiducia non si trova più a casa, ma nel feed.
Mostra Altri