Autore: by Antonello Camilotto
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1 ottobre 2025
Sui social network cresce la diffusione di termini e concetti nati nelle community incel: la cultura digitale rischia di normalizzare misoginia e odio mascherati da ironia. Negli ultimi anni, il mondo dei social ha visto l’emergere e la normalizzazione di un linguaggio che affonda le radici nelle comunità “incel” (involontariamente celibi). Quello che un tempo era un gergo circoscritto a forum di nicchia dall'impronta marcatamente misogina, oggi viene impiegato con leggerezza da adolescenti e giovani adulti nei commenti, nei meme, nei video virali. Ma cosa significa “incel”? Il termine nasce dall’inglese involuntary celibate, ovvero celibe involontario. Indica persone – nella quasi totalità dei casi uomini – che dichiarano di non riuscire ad avere relazioni sentimentali o sessuali pur desiderandole. Sebbene all’inizio il termine avesse un uso neutro, col tempo è stato associato a comunità online che esprimono frustrazione, rabbia e odio nei confronti delle donne e degli uomini considerati “vincenti” nelle relazioni, spesso idealizzati come Chad e Stacy. Da semplici sfoghi personali, molte community incel si sono trasformate in vere e proprie sottoculture tossiche, che promuovono una visione fatalista e gerarchica delle relazioni, dove l’apparenza fisica e la dominanza sociale determinano tutto. Il risultato è una narrazione profondamente misogina, che alimenta un linguaggio carico di disprezzo e disumanizzazione, in particolare verso le donne. Dalla nicchia alla viralità Termini come "Chad", "Stacy", "simp", "blackpill", e "femoid" hanno valicato i confini dei sottoboschi digitali per diventare parte del vocabolario informale di TikTok, Instagram, YouTube e Reddit. Spesso usati con toni ironici o parodici, questi termini veicolano però un immaginario pericoloso, che divide il mondo in rigide gerarchie e rafforza stereotipi dannosi. Secondo alcuni esperti di linguaggio e cultura digitale, usare certi termini senza conoscerne le origini può contribuire a rendere accettabile – o peggio, normale – un sistema di pensiero discriminatorio. Un fenomeno sottovalutato «Non si tratta solo di parole, ma di visioni del mondo che si fanno strada nei discorsi comuni», avverte una docente di sociologia dei media. «Quando i giovani usano “Chad” per descrivere un ragazzo attraente e dominante, o “simp” per deridere chi mostra rispetto verso le donne, stanno assorbendo modelli relazionali basati su dinamiche tossiche.» Il rischio non è solo quello di una perdita di consapevolezza linguistica, ma anche di una progressiva anestetizzazione dell’odio. Meme che sembrano innocui o scherzosi veicolano ideologie discriminatorie, rafforzando misoginia, omofobia e un generale rifiuto dell’empatia. Educazione digitale come antidoto Contro la diffusione di questo linguaggio, molti esperti invocano un’educazione digitale più profonda: non solo sull’uso tecnico dei social, ma anche sulla consapevolezza dei contenuti. Riconoscere il significato e le implicazioni di certi termini è il primo passo per contrastare la loro banalizzazione. Nel frattempo, alcune piattaforme iniziano a monitorare più attentamente il linguaggio usato dagli utenti. Ma il fenomeno è già in larga parte sfuggito al controllo, reso popolare da influencer e creator inconsapevoli del bagaglio ideologico che certe parole si portano dietro. ๏ปฟ In un’epoca in cui il linguaggio plasma la percezione della realtà, prestare attenzione alle parole che usiamo – e che leggiamo – sui social non è più solo una questione di stile, ma una responsabilità culturale.