Dark Web: il mercato nero e i miti da sfatare

I dati rubati alle aziende passano inevitabilmente attraverso il mercato nero del Dark Web, finendo in mano di cyber criminali e truffatori. Ecco il resoconto di un viaggio tra i “punti vendita” illegali della rete underground.


Gli investimenti in cyber security vengono spesso snobbati dalle aziende, il più delle volte per questioni legate a un presunto risparmio. Invece, proteggere il patrimonio informativo ed evitare fughe di notizie a causa di attacchi di social engineering dovrebbero essere tra i principali obbiettivi. Anche perché, in pochi lo sanno, i dati rubati passano inevitabilmente attraverso il mercato nero del Dark Web.


Chi ruba i dati, con ogni probabilità non è chi poi ne fa utilizzo diretto, bensì vengono semplicemente rivenduti nei canali underground della rete.


Cos’è il Dark Web e come si è creato


Il Dark Web porta con sé un’immagine negativa anche se non era così che doveva essere inizialmente perché è stato creato con l’intenzione di garantire l’accesso ad Internet in modo anonimo, ma purtroppo in molti utilizzato queste funzionalità per attività illegali.


Tutto ciò è deludente poiché alcuni esperti classificano questo spazio “oscuro” come il novanta per cento dell’intera rete Internet. Detto in altre parole, tutto quello che non è indicizzato, per lo più indicizzazione a pagamento, rimane sommerso.


Ciò significa che quasi l’intero Web è nascosto ad occhio nudo perché non indicizzato dai big dei motori di ricerca, e a differenza della normale Web (la cosiddetta “Surface Web”), non è possibile accedervi tramite un normale browser come Chrome o Firefox.


Per accedere in forma anonima è necessario un browser apposito, uno speciale portale che collega o reindirizza gli utenti al Dark Web proteggendo l’identità dell’utente, o altri sistemi per reti VPN o sistemi p2p di accesso speciale come vedremo più avanti. Queste ultime sono le Darknet.


È grazie a questo anonimato che il Dark Web è diventato un rifugio per attività illegali, dove le persone possono acquistare malware, droghe, armi o addirittura assoldare un sicario. Visitando il sito privacyaffairs.com si illustra quali sono i prodotti più popolari in vendita nella Dark Web e quanto costano e viene indicato che possiamo trovare carte di credito, documenti contraffatti e informazioni compromesse.


Come funziona il mercato nero del Dark Web


Uno degli elementi più costosi inclusi nel set di dati è il malware premium, che costa circa 5.500 dollari USA per mille installazioni. Dall’altra parte ci sono dettagli per l’accesso agli account PayPal (molte volte non funzionanti grazie all’autenticazione a due fattori), gli accessi Netflix o i dettagli di carte di credito rubate, tutti disponibili per meno di venti euro.


A dire il vero, possiamo estrapolare tre macro categorie del “materiale disponibile” nei siti non indicizzati del Dark Web:


  1. la prima è relativa alla classica truffa in cui le persone pagano per l’acquisto di un determinato bene che mai arriverà nelle proprie mani;
  2. la seconda riguarda il pagamento per l’acquisto di materiale che, alle fotografie esposte sembra perfetto ma una volta giunto a destinazione rivelano, ad esempio nel caso di documenti falsi, che sono stati realizzati con manifattura grottesca ed evidentemente inutilizzabili;
  3. la terza categoria, infine, riguarda la truffa in cui si paga una cifra esagerata per degli articoli che è possibile accaparrarsi anche grazie a tanta fortuna, ma poi arriva a destinazione del materiale di fatto inutilizzabile.


Ovviamente, stiamo parlando sempre di materiale truffaldino, illegale, talvolta rubato, senza garanzia inviato senza la possibilità di recesso ne di restituzione.


Tuttavia, è sorprendente che le guide alle frodi e all’hacking siano alcuni degli articoli più venduti, tutorial con l’obiettivo di insegnare alle persone come tentare di compromettere PayPal o diversi siti Web.


Quando sentiamo la parola Deep Web, ci viene in mente un grande mercato di droghe e armi da fuoco, ma non è solo questo, c’è molto altro. Terbium Labs, una società di protezione dai rischi digitali, ha voluto sfatare questa visione e per l’anno 2021 ha pubblicato un rapporto che suddivide le presunte attività in sei categorie per fornire una visione delle tendenze degli articoli più venduti. Hanno analizzato tre mercati: “The Canadian HeadQuarters”, “Empire Market” e “White House Market”.


Le guide pratiche sulle truffe che includono tutorial su come eseguire attività dannose sono state le più vendute per il cinquanta per cento. Un esempio: “Come aprire un conto fraudolento presso uno specifico istituto finanziario”. La maggior parte ha un prezzo medio di otto euro. I dati personali occupano il sedici per cento e comprendono nomi, numeri di telefono, indirizzi, indirizzi e-mail e codici fiscali, con un prezzo medio di nove euro.


Inoltre, troviamo anche diversi account e credenziali non finanziari, per una percentuale dell’otto per cento, che includono account per servizi come Netflix, Amazon o altri. Altri da società finanziarie, come PayPal, Stripe, Kraken e altri media bancari e di cripto valuta, che raggiungono un’altra fetta di mercato dell’otto per cento.


Infine, strumenti e modelli di frode possono essere trovati per un prezzo medio di cinquanta euro e includono applicazioni false che possono essere utilizzate come trojan per hackerare determinati sistemi, o modelli di siti Web che possono essere utilizzati per imitare pagine legittime esistenti per eseguire attacchi di phishing.


Tra i prodotti più richiesti ci sono le carte di pagamento che possono dar luogo ad addebiti non autorizzati e che solitamente hanno un range di prezzo all’acquisto dai diciotto ai duecento euro, che possono infliggere danni finanziari sostanziali a qualsiasi persona o entità.


Quali sono i principali mercati neri del Dark Web


Uno dei più longevi dei mercati è conosciuto come “Tor Market”, è attivo da marzo 2018 ed è sopravvissuto a diversi rivali più grandi come “Empire”, “Hydra Market” e “Dream Market”. La longevità di Tor Market è sorprendente, dato che risulta essere uno dei più longevi della storia del Dark Web.


Ciò non significa come detto prima che si è in grado di trovare tutto facilmente. La darknet, per esempio, è una porzione crittografata di Internet non indicizzata dai motori di ricerca. Per l’accesso richiede un browser specifico per l’anonimizzazione, in genere un software tipo I2P, Freenet o anche lo stesso Tor.


Molte darknet vendono droghe illegali in modo anonimo, con consegna tramite posta tradizionale o corriere, e assomigliano a siti di e-commerce legali come Amazon.


Un’analisi di oltre cento mercati darknet tra il 2010 e il 2017 ha rilevato che i siti erano attivi per una media di poco più di otto mesi. Degli oltre centodieci mercati della droga attivi dal 2010 al 2019, solo dieci sono rimasti pienamente operativi fino al 2019.


Mentre le vendite totali su tutti i mercati dentro la darknet sono aumentate nel 2020, e di nuovo nel primo trimestre del 2021, i dati per il quarto trimestre del 2021 suggeriscono che le vendite sono diminuite fino al cinquanta per cento.


Ciò rende la performance di Tor Market nello stesso periodo ancora più notevole. I suoi elenchi sono cresciuti da meno di dieci prodotti nei mesi precedenti la chiusura di “Dream Market” all’inizio del 2019 a oltre cento prodotti entro luglio dello stesso anno.


Dopo un periodo stabile in cui c’erano, in media, duecento cinquanta inserzioni nel 2020 e trecento ottanta nel 2021, un altro periodo di crescita si è verificato all’inizio del 2022. Questo ha visto oltre un migliaio di prodotti quotati su Tor Market entro la metà del 2022.


Questa espansione è stata guidata da un costante aumento delle vendite internazionali, che sono cresciute fino a superare le vendite nazionali della Nuova Zelanda all’inizio del 2022. La Nuova Zelanda rimane comunque il più fiorito mercato del Dark Web.


I “punti vendita” illegali del Dark Web


A prima vista, per esempio la Nuova Zelanda può sembrare un luogo improbabile per un crescente mercato internazionale della droga nelle darknet. Il suo isolamento geografico dai grandi mercati della droga europei e statunitensi, la piccola popolazione e l’assenza storica di qualsiasi fornitura sostanziale di cocaina ed eroina dovrebbero scagionarla, eppure questi fattori potrebbero essere esattamente ciò che ha guidato li questa innovazione di mercato emergente.


Le darknet forniscono un accesso anonimo e diretto ai venditori di droga internazionali che vendono MDMA anche conosciuta come Ecstasy, cocaina e oppioidi, tipi di droga non facilmente accessibili nei mercati della droga fisica in Nuova Zelanda. È improbabile che questi venditori internazionali abbiano interesse a rifornire un mercato così piccolo e distante.


Fornendo offerte da dozzine di venditori di droga internazionali e un forum centralizzato per gli acquirenti, Tor Market risolve il vero problema economico dei “mercati sottili” nella scena della droga neozelandese, dove semplicemente non ci sono abbastanza acquirenti per sostenere i venditori per alcuni tipi di droga.


Di solito, acquirenti e venditori avrebbero difficoltà a connettersi e quindi a giustificare il traffico internazionale su larga scala. Le darknet risolvono questo problema offrendo quantità al dettaglio di tipi di droghe tradizionalmente difficili da reperire come la MDMA direttamente a domicilio.


I neozelandesi hanno una storia di soluzioni innovative alla cosiddetta “tirannia della distanza”. Hanno anche un livello relativamente alto di coinvolgimento digitale e massicce abitudini di acquisto online rispetto agli standard internazionali. Forse le darknet offrono un’esperienza di shopping online familiare per questo tipo di mercato.


Da parte loro, gli amministratori di Tor Market affermano (sulla base del manuale di aiuto del proprio sito) di offrire una gamma di innovazioni e funzionalità di design che garantiscono la sicurezza di Tor Market.


Questo tipo di vanto non è raro tra gli operatori delle darknet come strategia di marketing per attirare nuovi fornitori su un sito. E non è chiaro se Tor Market offra davvero funzionalità di sicurezza o infrastrutture di codifica superiori rispetto ad altri siti.

Più credibile è la presunta strategia aziendale di Tor Market di cercare intenzionalmente di mantenere un profilo basso rispetto ai siti internazionali più grandi. In effetti, molti dei venditori su Tor Market nei primi giorni avevano sede in Nuova Zelanda e vendevano solo ad acquirenti locali.


L’aumento degli elenchi internazionali su Tor Market può riflettere problemi più ampi nell’ecosistema delle darknet, inclusa la chiusura di alcuni mercati delle darknet precedentemente dominanti e l’inaffidabilità di molti siti a causa di attacchi Denial of Service (DoS).


Alla fine, il successo di Tor Market potrebbe essere la sua rovina, resta da vedere se può sostenere la sua crescita internazionale e operare con un profilo internazionale più elevato, dato il relativo rischio per loro che si facciano strada le forze dell’ordine internazionali.


Alcuni miti sul Dark Web


C’è un’aura di misticismo intorno al Dark Web, come un Internet separato dove si possono trovare molti segreti malvagi e nascosti. Ma se si ha intenzione di approfondire, la prima cosa che si dovrebbe sapere è che non è un grosso problema navigarci, e si trova poco più di quanto c’è dentro la Surface Web.


La caratteristica principale di questo sottoinsieme di Internet è la privacy teorica che offre, sebbene ciò non impedisca lo smantellamento anche delle pagine illegali che vi si trovano. Per i paesi europei medi, questa rete offre pochi vantaggi oltre alla curiosità e avere un’esperienza di navigazione simile a quella di Internet degli Anni 90.


Tuttavia, la privacy è essenziale nei paesi in cui esiste una grande censura istituzionale e la libertà di espressione è amputata, tanto che anche alcuni media come la BBC sono interessati a metterci le loro informazioni per renderle più accessibili. In questi casi, queste reti possono essere utilizzate per trasmettere liberamente le varie opinioni.


È verissimo che la libertà può avere una doppia valenza e questo servizio viene utilizzato anche per scopi meno nobili, ma ciò non significa che non sia altrettanto importante.


Ma l’idea principale che si deve tenere in considerazione è che si vedranno poche cose che già non si trovano sulla Surface Web o dentro la Deep Web, contando su quest’ultimo con pagine e forum nascosti dai motori di ricerca dove simili contenuti possono essere pubblicati, ma non sono più ospitati sulla Surface Web.


Conclusioni


Tutto è internet, alcune parti sono più accessibili e sponsorizzate che altre, alcune parti invece sono all’interno di sistemi p2p o all’interno di grandi VPN.


Questa mancanza di accessibilità e di visibilità fanno la differenza e rendono alcuni settori della rete più ospitali per la malvivenza.

Non bisogna farsi in alcun modo intimidire, basta tenere conto che la maggior parte dei ransomware e attacchi virus si fa all’interno della Surface Web.


Sempre protetti da un ottimo sistema antivirus, si deve evitare di navigare con privilegi di amministrazione del proprio computer o meglio ancora, usare una macchina virtuale per le navigazioni di determinati settori della rete, senza acquisire nulla di illegale potrebbe bastare per una esperienza senza sorprese in queste zone di Internet.


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Autore: by Antonello Camilotto 21 luglio 2025
Una domanda affascinante continua a emergere tra studiosi, sviluppatori e curiosi: in che lingua “pensa” un’IA? Se parliamo con ChatGPT in italiano e poi in inglese, le risposte sono ugualmente fluide. Ma dietro le quinte, cosa succede davvero? L’intelligenza artificiale ha una lingua madre? La risposta breve: no, ma anche sì L’IA non pensa nel senso umano del termine. Non ha coscienza, pensieri propri, né un flusso interno di parole come accade nella mente umana. Tuttavia, la maggior parte dei modelli di IA — in particolare quelli basati su architetture di tipo transformer, come GPT — “operano” sul linguaggio. Ma non lo fanno in maniera culturale o emotiva: si limitano a riconoscere e generare sequenze di parole in base a ciò che hanno appreso dai dati. Quindi, possiamo dire che l’IA non ha una lingua interiore, ma lavora sulle lingue. Un cervello multilingue… o dominato dall’inglese? La stragrande maggioranza dei modelli linguistici, inclusi quelli sviluppati da OpenAI, Google o Meta, viene addestrata su testi provenienti da tutto il mondo. Tuttavia, gran parte di questi dati è in inglese. Questo significa che, anche se un’IA può rispondere in molte lingue, il “cuore” della sua comprensione e della sua struttura statistica tende a essere anglocentrico. Diversi studi hanno mostrato che modelli come GPT-4 tendono a performare meglio in inglese rispetto ad altre lingue, soprattutto su compiti complessi come la logica o la scrittura creativa. L’italiano, sebbene supportato bene, non è sempre trattato con la stessa precisione nei dettagli culturali o stilistici. La lingua come struttura, non come identità Pensare che un’IA “parli” interiormente una lingua equivale a umanizzarla. In realtà, un modello linguistico non ha identità linguistica. Funziona attraverso token numerici: ogni parola o parte di parola viene tradotta in una sequenza di numeri, che rappresentano vettori in uno spazio matematico astratto. Lì avviene il vero “pensiero” dell’IA: una complessa manipolazione di dati numerici che, al termine del processo, viene riconvertita in parole umane. In questo senso, la “lingua madre” dell’IA è fatta di numeri, non di parole. La lingua naturale arriva solo all’inizio e alla fine del processo. E le IA addestrate solo su una lingua? Esistono modelli addestrati esclusivamente su una lingua, ad esempio versioni monolingue di GPT o modelli sviluppati per mercati linguistici specifici. In questi casi, si può dire che il modello “opera” interamente in quella lingua, anche se sempre attraverso rappresentazioni numeriche. Tuttavia, questi modelli rischiano di essere meno versatili e meno robusti su compiti complessi o multi-culturali. L’illusione della mente umana Infine, va ricordato che l’intelligenza artificiale non ha un’esperienza soggettiva. Quando ci sembra che “pensi” come noi, è perché è brava a imitare il linguaggio umano. È un’illusione ben costruita, alimentata da miliardi di parole lette e riprodotte in modo statisticamente coerente. Ma dietro la maschera conversazionale, l’IA non pensa. Calcola. Quindi, in che lingua pensa l’IA? In nessuna. E in tutte. Ma soprattutto, nei numeri.
Autore: by Antonello Camilotto 18 luglio 2025
In nome della protezione dei minori, l’Unione Europea sta spingendo verso nuove misure per la verifica dell’età online. L’obiettivo dichiarato: impedire l’accesso dei minori a contenuti inappropriati, come pornografia, gioco d’azzardo e violenza esplicita. Ma dietro questa nobile causa si cela un paradosso inquietante: per tutelare i giovani, si rischia di eliminare l’anonimato per tutti gli altri. Le proposte legislative — contenute in diverse iniziative, tra cui l’European Digital Services Act e le raccomandazioni per una “Internet più sicura per i bambini” — impongono ai fornitori di contenuti di verificare in modo “efficace” l’età degli utenti. Fin qui, tutto comprensibile. Ma cosa significa davvero “verifica efficace”? E soprattutto, chi controlla e conserva i dati? Dati sensibili in cambio di accesso Per verificare l’età, le opzioni sono poche e tutte invasive: documenti d’identità, riconoscimento facciale, collegamento a servizi bancari. Sistemi che implicano l’identificazione personale dell’utente, anche per accedere a contenuti del tutto leciti per un adulto. È il prezzo da pagare, dicono i legislatori, per proteggere i più giovani. Tuttavia, molte voci critiche — da attivisti digitali a esperti di privacy — lanciano l’allarme: così facendo, si demolisce uno dei pilastri fondamentali della libertà su Internet, ovvero l’anonimato. “Per evitare che un dodicenne acceda a un sito vietato, si finisce per schedare ogni trentenne che guarda un film vietato ai minori di 18 anni”, sintetizza un analista del think tank europeo EDRi (European Digital Rights). Sorveglianza mascherata? C'è chi teme che dietro la spinta alla protezione dei minori si nasconda un’ulteriore opportunità per la raccolta e il controllo dei dati personali. L’identificazione obbligatoria rende ogni navigazione tracciabile, ogni preferenza profilabile, ogni scelta potenzialmente analizzabile da governi o aziende. “Un sistema che chiede di mostrare il passaporto digitale ogni volta che si apre un sito è incompatibile con una rete libera e democratica”, avverte Mozilla Foundation. “La tutela dei bambini non può essere usata come cavallo di Troia per introdurre una sorveglianza di massa.” La sfida dell’equilibrio Il paradosso si fa evidente: per proteggere una minoranza vulnerabile si impone un controllo pervasivo sulla maggioranza innocente. La sfida politica e tecnologica sarà trovare un equilibrio: sistemi che garantiscano una verifica dell’età robusta, ma che non compromettano i diritti digitali di tutti. Soluzioni innovative — come i cosiddetti “verificatori fidati” o l’utilizzo di tecnologie zero-knowledge proof, che permettono di dimostrare l’età senza rivelare l’identità — sono già sul tavolo. Ma hanno ancora un cammino lungo da percorrere prima di essere adottate su larga scala. Una questione di principio In definitiva, la questione va oltre la tecnica e tocca i valori fondanti dell’Europa digitale. Vogliamo un’Internet che protegga i minori o una che sorvegli gli adulti? O, più semplicemente, è possibile costruire una rete che faccia entrambe le cose, senza compromettere libertà e diritti? La risposta non è facile. Ma in un momento in cui la linea tra sicurezza e controllo si fa sempre più sottile, sarà fondamentale vigilare affinché la protezione non diventi censura, e l’identificazione non diventi schedatura.
Autore: by Antonello Camilotto 17 luglio 2025
Ogni 17 luglio si celebra il World Emoji Day, la giornata mondiale dedicata alle piccole icone digitali che da oltre due decenni colorano le nostre conversazioni virtuali. Nati in Giappone alla fine degli anni ’90, gli emoji sono oggi una lingua universale che supera confini geografici, barriere linguistiche e differenze culturali. Perché proprio il 17 luglio? La data non è casuale: l'emoji del calendario ๐Ÿ“… mostra, per default, proprio il 17 luglio. È un omaggio all’introduzione di iCal, il calendario di Apple, presentato per la prima volta in quella data nel 2002. Dal 2014, il fondatore di Emojipedia, Jeremy Burge, ha scelto di trasformare quella data nel momento perfetto per celebrare l’impatto degli emoji nella comunicazione globale. Da semplici simboli a linguaggio globale Gli emoji nascono in Giappone nel 1999 grazie a Shigetaka Kurita, che li progettò per la piattaforma i-mode di NTT DoCoMo. Erano 176 icone semplici, create per facilitare la comunicazione su piccoli schermi. Da allora, il loro numero è esploso: oggi sono oltre 3.800 quelli riconosciuti dallo Unicode Consortium, l’organismo che si occupa della standardizzazione del linguaggio emoji. Oggi usiamo emoji per esprimere emozioni, ironia, idee astratte, identità e perfino ideologie. L’emoji ๐Ÿ˜‚ ("face with tears of joy") è stato per anni il più usato al mondo, simbolo dell’ironia digitale. Ma le classifiche cambiano, così come il modo di comunicare. Una giornata pop, ma anche riflessiva Il World Emoji Day non è solo una festa leggera. Ogni anno, in questa occasione, si apre anche una riflessione sul ruolo culturale e sociale degli emoji. Le aziende tech annunciano nuovi aggiornamenti, l’Unicode Consortium anticipa le prossime icone in arrivo, e si discutono temi come l’inclusività, la rappresentazione di genere, le disabilità e le minoranze. Negli ultimi anni sono stati introdotti emoji che rappresentano persone con disabilità, tonalità di pelle diverse, famiglie non tradizionali, e simboli di molte culture. Questo perché, come afferma Emojipedia, “gli emoji devono rappresentare tutti”. Tra cultura pop e marketing ๏ปฟ Il World Emoji Day è anche un’occasione per i brand: campagne social, gadget, edizioni speciali e post celebrativi invadono la rete. Nel 2021, ad esempio, Google ha annunciato una serie di redesign per rendere gli emoji più “universalmente comprensibili”, mentre Apple e Samsung colgono spesso l’occasione per mostrare anteprime delle nuove emoji in arrivo. Ma anche il mondo dell’informazione e dell’arte guarda agli emoji con interesse: esistono mostre dedicate, studi accademici, e perfino traduzioni di classici come Moby Dick interamente riscritti in emoji. Un futuro in continua evoluzione In un’epoca dominata da comunicazioni brevi, visive e spesso asincrone, gli emoji hanno saputo conquistare uno spazio stabile tra parole e immagini. La loro evoluzione continua ci racconta molto di come cambia il nostro modo di esprimerci — e, in fondo, anche di come cambia il nostro modo di essere umani. Il World Emoji Day è dunque molto più di una curiosità digitale: è una lente sulla nostra società. E forse, come direbbe qualcuno, una faccina vale più di mille parole. ๐Ÿ˜‰
Autore: by Antonello Camilotto 25 giugno 2025
Nel mondo iperconnesso di oggi, dove smartphone, auto e dispositivi intelligenti dominano la nostra quotidianità, il concetto di Kill Switch – letteralmente “interruttore di emergenza” – sta guadagnando sempre più attenzione. Nato come misura di sicurezza in ambiti militari e industriali, il Kill Switch è oggi al centro di un acceso dibattito tra tutela della sicurezza pubblica, diritto alla privacy e controllo tecnologico. Cos’è un Kill Switch? Il Kill Switch è un meccanismo (fisico o digitale) progettato per spegnere un dispositivo, un sistema informatico o una rete in modo immediato e definitivo. In ambito tecnologico, viene spesso integrato nei software per consentire al produttore o a un’autorità competente di disattivare un dispositivo da remoto, in caso di furto, malfunzionamenti critici o minacce alla sicurezza. Esempi concreti? Gli smartphone Apple e Android integrano da anni sistemi di blocco remoto per dissuadere i furti. In ambito automobilistico, alcune vetture moderne possono essere disattivate a distanza in caso di mancato pagamento di un leasing o in scenari di emergenza. Sicurezza o sorveglianza? Il Kill Switch viene spesso presentato come strumento di protezione. Nei paesi dove il furto di smartphone è endemico, la possibilità di rendere inutilizzabile un dispositivo rubato ha portato a un drastico calo dei reati. In ambito militare e industriale, invece, il Kill Switch è cruciale per impedire la compromissione di tecnologie sensibili o per gestire emergenze critiche. Tuttavia, la possibilità di spegnere un dispositivo da remoto solleva interrogativi importanti. Chi detiene il potere di attivare un Kill Switch? Con quali garanzie? In mano a governi autoritari o a multinazionali tecnologiche, un Kill Switch potrebbe diventare uno strumento di censura o controllo, capace di zittire dissidenti, impedire proteste o compromettere l’autonomia dell’individuo. Kill Switch su Internet: il caso dell’Egitto e oltre Nel gennaio del 2011, durante le proteste della Primavera Araba, il governo egiziano ordinò la disconnessione totale di Internet nel paese. Questo evento – definito da molti come “Kill Switch nazionale” – mostrò al mondo che l’infrastruttura tecnologica può essere manipolata per silenziare la popolazione. Altri paesi hanno seguito l’esempio in varie forme: dall’India all’Iran, passando per la Cina, i blackout digitali sono diventati strumenti frequenti di controllo politico. In questo contesto, il Kill Switch non è solo un tema tecnico, ma un argomento etico, politico e sociale. Intelligenza Artificiale e veicoli autonomi: Kill Switch del futuro? Con l’avanzata dell’intelligenza artificiale e dei sistemi autonomi, il Kill Switch assume una nuova rilevanza. Veicoli a guida autonoma, robot industriali e sistemi di AI sempre più sofisticati potrebbero diventare pericolosi in caso di malfunzionamento o manipolazione. La comunità scientifica, tra cui esperti come Elon Musk e il defunto Stephen Hawking, ha più volte sottolineato la necessità di avere “interruttori d’emergenza” per prevenire scenari fuori controllo. Tuttavia, spegnere un sistema intelligente non è sempre semplice. Alcune IA avanzate potrebbero sviluppare strategie per aggirare un Kill Switch, alimentando discussioni su come progettare “bottoni rossi” efficaci e a prova di sabotaggio. Il Kill Switch è una tecnologia tanto utile quanto controversa. La sua implementazione tocca il cuore di questioni fondamentali: chi controlla la tecnologia? Come bilanciare sicurezza e libertà? In un’epoca in cui la nostra vita dipende sempre più da dispositivi digitali, il potere di “spegnere tutto” diventa uno dei temi più delicati e cruciali del nostro tempo. Il dibattito è aperto. E, forse, non c’è un interruttore che possa spegnerlo.
Autore: by Antonello Camilotto 23 giugno 2025
Nel mondo contemporaneo, dove la tecnologia permea ogni aspetto della vita quotidiana, nasce un concetto nuovo e affascinante: la spiritualità digitale. Ma cosa significa davvero questo termine? È solo un ossimoro moderno o rappresenta un'autentica evoluzione del modo in cui l'essere umano vive il sacro? La spiritualità al tempo del digitale La spiritualità è, da sempre, la ricerca di senso, connessione e trascendenza. È un'esperienza che va oltre la materialità, legata al bisogno di comprendere il proprio posto nell’universo. Con l'avvento della tecnologia digitale, questa ricerca si è trasformata, adattandosi ai nuovi mezzi e linguaggi. La spiritualità digitale non sostituisce la spiritualità tradizionale, ma la integra. Si manifesta nell'uso consapevole delle tecnologie per coltivare la consapevolezza, l'interiorità e la connessione con gli altri. Può prendere forma in molteplici modi: attraverso app di meditazione, comunità spirituali online, podcast sul benessere interiore, dirette social di leader religiosi o contenuti che promuovono la crescita personale. Le forme della spiritualità digitale App e piattaforme : Strumenti come Headspace, Insight Timer o Calm offrono meditazioni guidate, esercizi di respirazione e percorsi di consapevolezza accessibili ovunque. Sono esempi chiari di spiritualità digitale pratica. Comunità virtuali : Forum, gruppi Facebook o Discord, canali YouTube e profili Instagram diventano veri e propri spazi sacri digitali dove condividere riflessioni, rituali e supporto reciproco. Eventi online : Ritiri spirituali, cerimonie, preghiere collettive o momenti di meditazione si trasferiscono nel digitale, rompendo le barriere geografiche e rendendo l’esperienza accessibile a più persone. Intelligenza artificiale e spiritualità : Assistenti virtuali e chatbot spirituali (come quelli che offrono letture di testi sacri o meditazioni su misura) stanno aprendo nuovi scenari, in cui la tecnologia funge da guida spirituale personalizzata. Le opportunità La spiritualità digitale permette di democratizzare l’accesso a percorsi interiori. Persone che altrimenti non avrebbero contatti con pratiche spirituali, per motivi geografici, culturali o personali, possono avvicinarsi a esse in modo semplice e personalizzato. Inoltre, consente una spiritualità “a misura d’uomo”, non dogmatica, più flessibile e adatta alle esigenze contemporanee. Le criticità Tuttavia, la spiritualità digitale non è esente da rischi. C'è il pericolo della superficialità: pratiche spirituali ridotte a “consumo veloce”, fruite senza reale profondità. Inoltre, l’iperconnessione può diventare un ostacolo all’autentica introspezione, trasformando la ricerca del sacro in un’ulteriore distrazione. È fondamentale mantenere un atteggiamento critico e consapevole verso gli strumenti digitali, ricordando che essi sono mezzi, non fini. La spiritualità digitale è un fenomeno in continua evoluzione, specchio del nostro tempo. Non si tratta di una moda passeggera, ma di una trasformazione culturale che pone interrogativi profondi su come viviamo il senso, la connessione e il silenzio interiore in un mondo sempre connesso. Se usata con consapevolezza, la tecnologia può diventare un ponte verso una spiritualità più inclusiva, accessibile e attuale, senza perdere il contatto con la dimensione profonda dell’umano.
Autore: by Antonello Camilotto 21 giugno 2025
Nel XXI secolo, il mondo è diventato più interconnesso che mai. Le reti digitali alimentano tutto: comunicazioni, trasporti, finanza, sanità, infrastrutture critiche. Questo livello di dipendenza dalla tecnologia ha migliorato la qualità della vita, ma ha anche aperto nuove vulnerabilità su scala globale. La domanda quindi è più attuale che mai: il mondo potrebbe davvero subire un attacco informatico catastrofico? La natura delle minacce informatiche globali Gli attacchi informatici sono ormai una componente stabile del panorama della sicurezza globale. Dalle campagne di ransomware che paralizzano ospedali e aziende, fino alle operazioni di spionaggio digitale condotte da stati nazionali, i rischi sono reali, quotidiani e in rapida evoluzione. Gli attacchi più gravi finora hanno avuto impatti significativi ma localizzati. Si pensi a Stuxnet, il virus informatico che ha colpito il programma nucleare iraniano nel 2010, o al ransomware NotPetya del 2017, che ha causato miliardi di dollari di danni, colpendo imprese e istituzioni in tutto il mondo. Tuttavia, questi eventi non hanno provocato un collasso sistemico. La domanda è: cosa succederebbe se un attacco coordinato colpisse simultaneamente più infrastrutture critiche? Cosa si intende per “catastrofico”? Un attacco informatico catastrofico non è semplicemente un’interruzione o un furto di dati: implica il blocco prolungato di servizi fondamentali su larga scala. Parliamo, ad esempio, di: Paralisi delle reti elettriche in più paesi Compromissione di sistemi bancari con perdita o manipolazione massiva di dati finanziari Attacchi ai sistemi satellitari o GPS che regolano trasporti, logistica e difesa Diffusione incontrollata di disinformazione per destabilizzare governi o creare panico In uno scenario del genere, il confine tra guerra informatica e guerra tradizionale si assottiglierebbe notevolmente. Chi potrebbe scatenarlo? Le fonti potenziali di un attacco catastrofico includono: Stati ostili, dotati di sofisticate capacità cyber (come Stati Uniti, Russia, Cina, Iran, Corea del Nord) Gruppi terroristici o hacktivisti, motivati da ideologie radicali o desideri di destabilizzazione Organizzazioni criminali, attratte dal potenziale guadagno o dal ricatto Errori o incidenti interni, in cui un bug o un software difettoso scatena conseguenze a catena (simili ai “bug dell’anno 2000” temuti all’epoca). Il rischio reale La possibilità di un attacco informatico catastrofico esiste, ma è considerata a bassa probabilità e alto impatto. Le nazioni investono miliardi nella cybersicurezza proprio per evitare che si verifichi un evento del genere. Tuttavia, la complessità e interdipendenza dei sistemi digitali aumenta il rischio di vulnerabilità inaspettate. Inoltre, la deterrenza che funziona nel mondo fisico (come la minaccia nucleare) è più difficile da applicare nel cyberspazio, dove l’attribuzione di un attacco è spesso incerta. Questo rende il cyberspazio un terreno fertile per operazioni “ibridi” sotto il livello di guerra dichiarata. Cosa si può fare? Prevenire un attacco catastrofico richiede un approccio multilivello: Miglioramento continuo delle infrastrutture critiche, con aggiornamenti costanti e segmentazione dei sistemi Cooperazione internazionale, per condividere intelligence e definire norme comuni nel cyberspazio Simulazioni e addestramento, per preparare governi e imprese a rispondere in modo coordinato Educazione e consapevolezza pubblica, perché la sicurezza informatica parte anche dagli utenti comuni Un attacco informatico catastrofico non è solo fantascienza. È una possibilità concreta che richiede preparazione, vigilanza e collaborazione a livello globale. Anche se il mondo ha evitato finora una crisi informatica su scala sistemica, la minaccia rimane all’orizzonte. La domanda non è più se accadrà, ma quanto siamo pronti a rispondere.
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