Zoombombing: quando gli intrusi irrompono nelle videochat

by Antonello Camilotto

Con l’esplosione delle videoconferenze negli ultimi anni, soprattutto durante i periodi di lockdown, è emerso un fenomeno tanto inquietante quanto fastidioso: lo Zoombombing. Il termine deriva dalla piattaforma Zoom, una delle più utilizzate a livello globale, ma oggi viene usato per indicare qualsiasi irruzione non autorizzata in una riunione online, indipendentemente dal servizio utilizzato.


L’atto è semplice nella sua dinamica, ma spesso devastante nei suoi effetti: un individuo, non invitato, riesce ad accedere a una videochat privata e inizia a interrompere la conversazione, proiettare contenuti offensivi, pronunciare insulti o diffondere materiale inappropriato. In molti casi si tratta di scherzi di cattivo gusto, ma in altri episodi la situazione degenera in vere e proprie molestie digitali.


Il fenomeno ha avuto il suo picco durante il 2020, quando scuole, università, aziende e persino eventi culturali si sono spostati online. Link pubblici o condivisi sui social senza protezione diventavano porte spalancate per chiunque volesse entrare. La semplicità di accesso, unita all’assenza iniziale di misure di sicurezza robuste, ha reso le piattaforme particolarmente vulnerabili.


Casi emblematici e rischi legali


Non sono mancati episodi di cronaca. In alcune scuole, lezioni virtuali sono state interrotte da intrusi che trasmettevano video violenti o pornografici, costringendo insegnanti e studenti a interrompere immediatamente l’attività. In altri contesti, riunioni aziendali riservate sono state sabotate, con possibili fughe di informazioni sensibili.


Dal punto di vista legale, lo Zoombombing può configurarsi come violazione della privacy, accesso abusivo a sistemi informatici o, nei casi più gravi, diffusione di materiale illecito. In diversi paesi, Italia inclusa, tali azioni sono perseguibili penalmente.


Perché avviene e come prevenirlo


Alla base dello Zoombombing ci sono spesso motivazioni banali: desiderio di visibilità, noia, volontà di disturbare o provocare reazioni. Tuttavia, la facilità con cui può essere messo in atto lo rende appetibile anche per chi ha intenzioni malevole.


Gli esperti di sicurezza digitale raccomandano alcune contromisure:

  • Protezione con password: ogni riunione dovrebbe essere accessibile solo previa autenticazione.
  • Sale d’attesa: funzione che consente all’organizzatore di ammettere manualmente ogni partecipante.
  • Link privati: mai condividere i collegamenti in spazi pubblici o sui social.
  • Aggiornamenti software: le piattaforme rilasciano regolarmente patch di sicurezza per correggere vulnerabilità.
  • Moderazione attiva: nominare co-host in grado di espellere rapidamente eventuali intrusi.


Uno specchio della fragilità digitale


Lo Zoombombing non è soltanto un fastidio tecnico, ma il sintomo di una fragilità più ampia: la nostra dipendenza dalle comunicazioni online e la scarsa consapevolezza delle misure di protezione necessarie. In un’epoca in cui il lavoro da remoto e l’apprendimento a distanza sono sempre più diffusi, garantire la sicurezza delle interazioni virtuali è essenziale per tutelare non solo la produttività, ma anche la dignità e il benessere psicologico dei partecipanti.


In definitiva, la prevenzione resta l’arma più efficace. Non basta affidarsi alla tecnologia: serve un cambiamento culturale che metta la sicurezza digitale al centro delle nostre abitudini online. Perché se è vero che il web ci unisce, è altrettanto vero che, senza difese adeguate, può spalancare la porta a ospiti indesiderati.


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Autore: by Antonello Camilotto 2 ottobre 2025
Il termine data breach è ormai entrato nel linguaggio comune, spesso associato a scenari catastrofici e notizie di cronaca legate alla perdita o al furto di dati sensibili. Tuttavia, intorno a questo fenomeno circolano ancora molti luoghi comuni che rischiano di far abbassare la guardia o, al contrario, di alimentare panico ingiustificato. Facciamo chiarezza, sfatando alcuni miti diffusi. Mito 1: “Un data breach riguarda solo le grandi aziende” La realtà è opposta: anche le piccole e medie imprese sono bersaglio frequente di attacchi informatici. Spesso, anzi, risultano più vulnerabili perché non dispongono delle stesse risorse per la sicurezza informatica di una multinazionale. Nessuna organizzazione è troppo piccola per essere presa di mira: i criminali cercano opportunità, non dimensioni. Mito 2: “I data breach avvengono solo dall’esterno” Non sempre le violazioni derivano da hacker esterni. Una parte significativa dei data breach è dovuta a errori interni, negligenze o comportamenti scorretti da parte di dipendenti e collaboratori. Anche una semplice e-mail inviata al destinatario sbagliato può costituire un data breach. Mito 3: “Se i dati non sono sensibili, non c’è pericolo” Ogni informazione ha valore. Anche dati apparentemente innocui, come indirizzi e-mail o numeri di telefono, possono essere utilizzati per campagne di phishing, furto di identità o social engineering. Minimizzare l’importanza delle informazioni può favorire l’esposizione a rischi seri. Mito 4: “Un data breach si risolve con la tecnologia” Gli strumenti tecnologici sono indispensabili, ma da soli non bastano. La sicurezza è anche una questione di processi, formazione del personale e cultura aziendale. La prevenzione richiede un approccio integrato che includa procedure chiare, consapevolezza degli utenti e piani di risposta agli incidenti. Mito 5: “Se non si parla del problema, sparisce” Ignorare o sottovalutare un data breach è un errore grave. La normativa, come il GDPR in Europa, impone obblighi stringenti in materia di notifica e gestione delle violazioni. Tentare di nascondere un incidente può comportare sanzioni pesanti e danni reputazionali difficili da recuperare. I data breach non sono eventi rari né circoscritti a contesti specifici: rappresentano una minaccia concreta per qualsiasi realtà, indipendentemente dalla dimensione o dal settore. Per difendersi è necessario superare i falsi miti, adottare un approccio consapevole e proattivo e considerare la sicurezza dei dati come una responsabilità condivisa da tutta l’organizzazione.
Autore: by Antonello Camilotto 2 ottobre 2025
Chi scrive ai comuni italiani, spesso non ci pensa: dietro ogni indirizzo di posta elettronica istituzionale c’è un fornitore di servizi che garantisce la consegna, la sicurezza e la gestione dei messaggi. Ma quali provider dominano davvero la corrispondenza digitale dei municipi del nostro Paese? Secondo un’analisi condotta su un campione rappresentativo di indirizzi istituzionali, il panorama è meno variegato di quanto ci si potrebbe aspettare. Gran parte delle amministrazioni si affida ancora a soluzioni tradizionali, spesso centralizzate a livello regionale o fornite da società pubbliche e partecipate. In prima linea ci sono infatti i servizi legati a Aruba, Microsoft e Google, che negli ultimi anni hanno guadagnato terreno anche grazie a convenzioni Consip e gare pubbliche. Non mancano però le eccezioni: alcuni comuni, soprattutto i più piccoli, utilizzano ancora provider locali o servizi gestiti da consorzi intercomunali, spesso legati a società informatiche regionali. Questa scelta, se da un lato garantisce vicinanza e assistenza personalizzata, dall’altro può tradursi in una minore capacità di aggiornamento tecnologico rispetto ai grandi player. Il tema non è secondario: l’adozione di un provider piuttosto che un altro influisce su sicurezza, interoperabilità e costi. Nel pieno delle politiche di digitalizzazione promosse dal PNRR e dall’AgID, la scelta del servizio di posta elettronica diventa anche un tassello strategico. In particolare, la PEC (Posta Elettronica Certificata), strumento fondamentale per le comunicazioni ufficiali, resta saldamente in mano ad Aruba e ad altri operatori italiani accreditati, in linea con la normativa nazionale ed europea. La fotografia che emerge è quindi quella di un’Italia a più velocità: grandi città e capoluoghi sempre più orientati verso infrastrutture cloud internazionali, piccoli comuni che faticano a staccarsi da provider storici e soluzioni su misura. La sfida, nei prossimi anni, sarà garantire a tutti i municipi un’infrastruttura sicura, efficiente e interoperabile, senza lasciare indietro nessuno.
Autore: by Antonello Camilotto 2 ottobre 2025
Quando si parla di hacking e attivismo digitale, un nome emerge con forza: Anonymous. Più che un gruppo strutturato, Anonymous è un collettivo fluido, privo di gerarchie ufficiali, che rappresenta una delle espressioni più iconiche della cultura hacker contemporanea. Origini e filosofia Anonymous nasce nei primi anni 2000 nei forum online e in particolare su piattaforme come 4chan, dove l’anonimato era una condizione naturale della comunicazione. Da lì si sviluppa l’idea di un’identità collettiva che supera quella individuale, simbolizzata dalla celebre maschera di Guy Fawkes tratta dal fumetto e dal film V for Vendetta. Il principio cardine del collettivo è l’assenza di un leader: chiunque può agire “a nome di Anonymous” purché segua gli ideali del gruppo, legati alla libertà di espressione, alla lotta contro la censura e alla denuncia di abusi di potere. Le operazioni più celebri Anonymous si è reso noto per una serie di operazioni globali, spesso con forte impatto mediatico. Tra le più note: Operazione Chanology (2008): attacchi contro la Chiesa di Scientology, accusata di censura e abusi. Attacchi alle multinazionali: campagne contro PayPal, MasterCard e Visa dopo che queste bloccarono i fondi destinati a WikiLeaks. Operazioni politiche: supporto a movimenti come la Primavera Araba e Occupy Wall Street, attraverso la diffusione di informazioni e la compromissione di siti governativi. Attività recenti: durante crisi geopolitiche, Anonymous ha rivendicato azioni di cyber-attacco contro siti e reti governative, schierandosi apertamente su questioni internazionali. Anonymous: hacktivismo e controversie Il collettivo è considerato da molti un simbolo dell’hacktivismo, ovvero l’uso delle tecniche informatiche come strumento di protesta e impegno politico. Tuttavia, non sono mancate critiche: la mancanza di una struttura interna rende difficile distinguere tra azioni realmente “etiche” e quelle motivate da interessi personali. Inoltre, le loro incursioni spesso violano la legge, collocandoli in una zona grigia tra difensori della libertà e criminali informatici. Alcuni membri, in seguito a indagini internazionali, sono stati arrestati e condannati. L’eredità culturale Al di là delle singole operazioni, Anonymous ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo sul potere delle comunità digitali. La loro iconografia – la maschera, i messaggi video, lo slogan “We are Anonymous. We are Legion. We do not forgive. We do not forget” – ha trasformato il collettivo in un fenomeno mediatico e culturale. ๏ปฟ Anonymous non è un’organizzazione tradizionale, ma un’idea: quella che il cyberspazio può essere uno strumento di resistenza e di lotta politica. Ed è proprio questa natura sfuggente e globale a renderlo una delle figure più note e controverse dell’hacking.
Autore: by Antonello Camilotto 2 ottobre 2025
Il termine open source è oggi parte del linguaggio comune, soprattutto in ambito tecnologico, ma la sua portata va oltre il mondo del software. Significa “sorgente aperto” e indica un modello di sviluppo e distribuzione basato sulla condivisione, la trasparenza e la collaborazione. Per comprenderlo appieno, è utile ripercorrerne le origini e l’evoluzione. Che cosa significa “Open Source” Un software open source è un programma il cui codice sorgente è reso disponibile a chiunque desideri studiarlo, modificarlo o ridistribuirlo. L’elemento centrale non è soltanto la gratuità, ma la libertà: Libertà di eseguire il software per qualsiasi scopo. Libertà di studiarne il funzionamento. Libertà di modificarlo e adattarlo alle proprie esigenze. Libertà di condividerlo, con o senza modifiche. Questi principi sono sanciti da licenze specifiche (come la GNU General Public License, MIT, Apache, ecc.), che regolano i diritti e i doveri di chi sviluppa e utilizza software open source. Le origini: dagli anni ’50 all’era UNIX Negli anni ’50 e ’60, il software non era visto come un prodotto a sé stante, ma come complemento dell’hardware. Le università e i centri di ricerca condividevano liberamente i programmi, favorendo la collaborazione scientifica. Con l’avvento delle aziende informatiche negli anni ’70, la tendenza cambiò: il software iniziò a essere venduto come prodotto chiuso, con licenze proprietarie. In questo contesto nacque il movimento del software libero promosso da Richard Stallman, che nel 1985 fondò la Free Software Foundation (FSF) e lanciò il progetto GNU. Stallman parlava esplicitamente di “libertà” degli utenti, distinguendola dalla semplice “gratuità”. La nascita del termine “Open Source” Negli anni ’90, per evitare i fraintendimenti legati al termine “free software” (spesso interpretato come “gratis”), un gruppo di sviluppatori coniò l’espressione open source. Nel 1998 nacque la Open Source Initiative (OSI), con lo scopo di promuovere un modello di sviluppo che fosse comprensibile anche alle aziende e appetibile per il mercato. ๏ปฟ Questa svolta rese l’open source più accettabile agli occhi dell’industria, spianando la strada a grandi successi come il sistema operativo Linux, il server Apache e successivamente il browser Firefox. L’evoluzione e l’impatto Oggi l’open source non è più una nicchia: rappresenta la base di gran parte delle tecnologie digitali. I sistemi operativi Android e Linux alimentano milioni di dispositivi. Molti strumenti di intelligenza artificiale (come TensorFlow o PyTorch) sono rilasciati in modalità open source. Aziende come Google, Microsoft, IBM e Red Hat partecipano attivamente a progetti comunitari. Oltre al software, l’approccio open source ha influenzato settori come l’hardware, l’editoria scientifica e persino la cultura, dando vita a un vero e proprio paradigma di condivisione. L’open source è più di un modello tecnico: è una filosofia che valorizza la collaborazione e la trasparenza. Nato come reazione alla chiusura del software commerciale, oggi è diventato il cuore pulsante dell’innovazione digitale. La sua storia mostra come la libertà di accesso e la condivisione delle conoscenze possano generare progresso collettivo.
Autore: by Antonello Camilotto 1 ottobre 2025
Sui social network cresce la diffusione di termini e concetti nati nelle community incel: la cultura digitale rischia di normalizzare misoginia e odio mascherati da ironia. Negli ultimi anni, il mondo dei social ha visto l’emergere e la normalizzazione di un linguaggio che affonda le radici nelle comunità “incel” (involontariamente celibi). Quello che un tempo era un gergo circoscritto a forum di nicchia dall'impronta marcatamente misogina, oggi viene impiegato con leggerezza da adolescenti e giovani adulti nei commenti, nei meme, nei video virali. Ma cosa significa “incel”? Il termine nasce dall’inglese involuntary celibate, ovvero celibe involontario. Indica persone – nella quasi totalità dei casi uomini – che dichiarano di non riuscire ad avere relazioni sentimentali o sessuali pur desiderandole. Sebbene all’inizio il termine avesse un uso neutro, col tempo è stato associato a comunità online che esprimono frustrazione, rabbia e odio nei confronti delle donne e degli uomini considerati “vincenti” nelle relazioni, spesso idealizzati come Chad e Stacy. Da semplici sfoghi personali, molte community incel si sono trasformate in vere e proprie sottoculture tossiche, che promuovono una visione fatalista e gerarchica delle relazioni, dove l’apparenza fisica e la dominanza sociale determinano tutto. Il risultato è una narrazione profondamente misogina, che alimenta un linguaggio carico di disprezzo e disumanizzazione, in particolare verso le donne. Dalla nicchia alla viralità Termini come "Chad", "Stacy", "simp", "blackpill", e "femoid" hanno valicato i confini dei sottoboschi digitali per diventare parte del vocabolario informale di TikTok, Instagram, YouTube e Reddit. Spesso usati con toni ironici o parodici, questi termini veicolano però un immaginario pericoloso, che divide il mondo in rigide gerarchie e rafforza stereotipi dannosi. Secondo alcuni esperti di linguaggio e cultura digitale, usare certi termini senza conoscerne le origini può contribuire a rendere accettabile – o peggio, normale – un sistema di pensiero discriminatorio. Un fenomeno sottovalutato «Non si tratta solo di parole, ma di visioni del mondo che si fanno strada nei discorsi comuni», avverte una docente di sociologia dei media. «Quando i giovani usano “Chad” per descrivere un ragazzo attraente e dominante, o “simp” per deridere chi mostra rispetto verso le donne, stanno assorbendo modelli relazionali basati su dinamiche tossiche.» Il rischio non è solo quello di una perdita di consapevolezza linguistica, ma anche di una progressiva anestetizzazione dell’odio. Meme che sembrano innocui o scherzosi veicolano ideologie discriminatorie, rafforzando misoginia, omofobia e un generale rifiuto dell’empatia. Educazione digitale come antidoto Contro la diffusione di questo linguaggio, molti esperti invocano un’educazione digitale più profonda: non solo sull’uso tecnico dei social, ma anche sulla consapevolezza dei contenuti. Riconoscere il significato e le implicazioni di certi termini è il primo passo per contrastare la loro banalizzazione. Nel frattempo, alcune piattaforme iniziano a monitorare più attentamente il linguaggio usato dagli utenti. Ma il fenomeno è già in larga parte sfuggito al controllo, reso popolare da influencer e creator inconsapevoli del bagaglio ideologico che certe parole si portano dietro. ๏ปฟ In un’epoca in cui il linguaggio plasma la percezione della realtà, prestare attenzione alle parole che usiamo – e che leggiamo – sui social non è più solo una questione di stile, ma una responsabilità culturale.
Autore: by Antonello Camilotto 29 settembre 2025
La Declaration of the Future of the Internet (Dfi), pubblicata il 28 aprile 2022, è un’iniziativa internazionale che riunisce oltre 60 Paesi — tra cui Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Giappone, Canada e Australia — con l’obiettivo di delineare una visione condivisa per uno sviluppo dell’internet libero, aperto e sicuro. Non si tratta di un trattato vincolante, ma di una dichiarazione di intenti che stabilisce principi comuni per contrastare le crescenti minacce alla libertà online. Contesto e motivazioni Negli ultimi anni, internet è stato al centro di tensioni politiche e sociali: censura da parte di governi autoritari, uso della rete per la sorveglianza di massa, disinformazione, manipolazione algoritmica, violazioni della privacy e restrizioni alla libera espressione. La dichiarazione nasce come risposta a queste sfide, con lo scopo di riaffermare il modello di un cyberspazio aperto, inclusivo e basato sul rispetto dei diritti umani. I principi fondamentali La Declaration of the Future of the Internet si fonda su alcuni pilastri centrali: Libertà e diritti umani: difendere la libertà di espressione, il pluralismo dell’informazione e la protezione dei dati personali. Internet aperto e globale: promuovere un’infrastruttura digitale interoperabile, senza frammentazioni o barriere imposte da singoli Stati. Sicurezza e resilienza: rafforzare la protezione contro cyberattacchi, ransomware e altre minacce digitali. Inclusione digitale: ridurre il divario nell’accesso alla rete e garantire che la tecnologia favorisca lo sviluppo sostenibile. Innovazione responsabile: incoraggiare un ecosistema digitale trasparente e competitivo, che non soffochi la creatività e l’imprenditorialità. Impatto e prospettive Pur non avendo valore giuridico, la dichiarazione rappresenta un forte impegno politico e un punto di riferimento etico per le politiche digitali dei Paesi firmatari. Essa mira a rafforzare la cooperazione internazionale contro la “balcanizzazione di internet”, ossia il rischio che la rete si frammenti in blocchi controllati da singoli governi o grandi aziende. Il documento è stato accolto positivamente dalle organizzazioni che difendono i diritti digitali, anche se alcune hanno sottolineato che occorrerà vigilare sulla coerenza tra principi dichiarati e azioni concrete dei governi. La Declaration of the Future of the Internet non risolve da sola i problemi del cyberspazio, ma segna un passo significativo verso la costruzione di un internet più sicuro, inclusivo e rispettoso dei valori democratici. È, in sostanza, una cornice di collaborazione globale per preservare il carattere originario della rete come spazio libero, universale e al servizio delle persone.
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